Si sa dove ricadono le colpe dei padri
Le candide lettere che sulla collina di Hollywood scrivono il nome del sogno sembrano guardare dall'alto il misero brulicare di un'umanità che ha perso di vista il vero significato della parola felicità, se non il senso stesso della vita. I personaggi entrano in scena uno per volta: una ragazza (Mia Wasikowska) deturpata da ustioni di misteriosa origine in cerca del suo posto in Paradiso; un fascinoso autista di limo (Robert Pattinson) che naturalmente studia per attore e sceneggiatore;
Hanna ha 13 anni e ha ricevuto dal padre un addestramento da far impallidire Nikita. È cresciuta nelle gelide, inospitali foreste della Finlandia, addestrata a tutte le specialità, temprata a ogni durezza, a ogni sacrificio. Perché la sua meta, il suo unico scopo è una vendetta, per la quale l’ha cresciuta il padre, ex super-agente CIA datosi alla latitanza (Eric Bana). Quando finalmente Hanna sarà pronta, come un’arma ben oliata, caricata e puntata, pronta a sparare, il padre lascia che la vita vera (quella che è stata la vita vera per lui) irrompa nel loro rifugio, mettendo a durissima prova il severo allenamento della ragazzina. Che inizia una fuga attraverso il Marocco prima e l’Europa poi, inseguita da una perfida agente CIA (la glaciale Cate Blanchett), donna dai misteriosi e complessi rapporti col padre, e dai suoi psicopatici scagnozzi. Ignora la durissima ragazzina dall’aspetto indifeso, che la sua esistenza nuocerà gravemente a tutti coloro che avranno la sventura di incontrarla. Mentre fugge e insegue, Hanna scopre il Mondo, come una piccola, feroce “selvaggia”, che nulla sa della vita e che ha sempre pensato che il suo fosse l’unico mondo possibile. Mentre la ragazzina prosegue nel suo doloroso cammino, durante il quale dovrà fare i conti con sconcertanti rivelazioni sulla propria vita, anche gli adulti si fronteggiano, nella loro follia omicida. Alla fine dei titoli di coda, una voce sussurra criptica “continua a dormire”.
Semplice provocazione o premio meritato? Sta di fatto che il Festival di Berlino si è concluso ieri con l'Orso d'Argento andato a Roman Polanski per il suo The Ghost Writer (in italiano L'uomo nell'ombra). E così quest'anno il premio alla regia ha quasi creato più scalpore del riconoscimento principale, l'Orso d'Oro andato al film turco-tedesco Honey di Semih Kaplanoglu.
Dal romanzo di Robert Harris, Polanski trae un (discutibile) noir sulla parabola di una giustizia indegna di questo nome, tutta “chiacchiere e distintivo”. Politici corrotti, agenti segreti coinvolti, osceni crimini di guerra e, nel mezzo, delitti senza castigo e sacrifici di innocenti.
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