Si può immaginare che A) l’uomo sia una macchina da guerra B) che sia arrabbiato nero. Ma i tre, che svaligiano allegramente le case dei ricchi, rastrellando cosette di valore che rivendono a un ricettatore che li deruba a sua volta, sono mossi da diverse pulsioni. Money è un incosciente strafattone, che agisce ma non pensa; la ragazza Rocky cerca di mettere insieme un gruzzolo che le permetta di rifarsi una vita con la sorellina minore ben lontano dalla sua devastata famiglia; Alex, l’unico di estrazione piccolo-borghese, lo fa perché ha una cotta per Rocky e spera di proteggerla evitandole guai più seri. Il veterano diventa il loro bersaglio perché sembra essere in possesso di una grossa somma in contanti, risarcimento dell’assicurazione per la morte della figlia. E i contanti, che non hanno bisogno di ricettatori, fanno molta gola. Ma la casa dell’uomo si tramuta in una trappola mortale, da cui uscire diventerà ogni minuto più difficile. Perché i ragazzi sono dei bad boys, ma il veterano è molto più bad di loro e in cantina nasconde un segreto scioccante. Del film non possiamo davvero dire altro, per non sciupare la visione. Pur prevedibile (ma un paio di ottimi colpi di scena ci sono) mentre fa ricorso a molti dei passaggi obbligati di questo genere di storie (e alcuni di essi richiedono sempre la sospensione dell’incredulità), mantiene una sua tensione elementare ma efficace. Dopo il remake de La casa e sempre con il supporto di Sam Raimi, Fede Alvarez dirige quindi un valido film, che fa perfettamente il suo lavoro. Il veterano è affidato all’ottimo Stephen Lang (il militare cattivo di Avatar, attore dalla lunga, onorevole carriera), inquietante cieco dall’animo più devastato del suo volto. I ragazzi, tutti all’altezza, già visti in molte serie e film indie, sono Jane Levy (Shameless, Suburgatory), Dylan Minnette (Piccoli brividi, Scandal) e Daniel Zovatto (It Follows). Man in the Dark non è propriamente solo un horror, è anche un thriller in fondo e soprattutto è un film di inseguimento, senza sosta, con prede e predatori che si scambiano in continuazione i ruoli in uno spazio chiuso, che può diventare ancora più angusto e soprattutto sprofondare nell’oscurità, come nell’ottima sequenza girata al buio con gli infrarossi, buio in cui udito e olfatto decidono chi vincerà quella tenzone. Il titolo originale è infatti Don’t Breathe, perché anche un sospiro può essere mortale in quel crudele gioco al gatto e al topo. E dove il confine fra i buoni e i cattivi diventerà tragicamente labile. Quanto giustamente o meno, lo deciderà lo spettatore.