Everest: Recensione

Di   |   25 Settembre 2015
Everest: Recensione

Per aspera...

La sfida fa parte della natura umana, andare sempre più avanti, più in alto, sempre oltre, esplorare le foreste, scalare le vette, solcare gli oceani, scandagliare gli abissi, sfidare la fisica, incrementare record, mettere piede sulla Luna, investigare l'atomo. Fa parte della nostra natura perché favorisce l'evoluzione, si dice. Ma anche la Natura, come gli Dei, ride, quando l'uomo fa i suoi piani, specie se la riguardano. E sembra che di recente rida di più perché l'uomo civilizzato è convinto che la sua tecnologia lo metta al riparo dalle conseguenze di eventuali sue manchevolezze, capace di rimediare agli errori che possa commettere nella sua fallibilità.


Ma così non è quasi mai. Il film Everest racconta una di queste storie, vera, avvenuta nel 1996, già soggetto di un libro scritto l'anno dopo da Jon Krakauer, L'Aria Sottile, fresco del successo di Nelle terre estreme, da cui è stato tratto Into the Wild, storia di un'altra folle sfida, quella di Christopher McCandle (in Everest Krakauer, che ha realmente partecipato alla spedizione, è interpretato da Michael Kelly, il "cane fedele" di Frank Underwood in House of Cards). Il suo resoconto però, già al centro di molte polemiche, non è stato preso in considerazione dagli sceneggiatori William Nicholson (Il gladiatore, I Miserabili, Mandela) e Simon Beaufoy (The Millionaire, 127 ore, Hunger Games: La ragazza di fuoco), che si sono invece rifatti a Left for Dead: My Journey Home from Everest (in italiano A Un Soffio dalla Fine) scritto da Beck Weathers, e alla trascrizione delle conversazioni via radio tra Rob Hall e sua moglie, Jan Arnold, scalatrice anche lei. Per scalare gli ultimi degli 8.48 metri di altezza e arrivare alla vetta, nel maggio del 1996 partono contemporaneamente quattro spedizioni, fra cui quelle guidate da Rob Hall (Jason Clarke) e Scott Fischer (Jake Gyllenhaal). Le spedizioni sono composte da clienti salatamente paganti (più di 60 mila dollari a testa), atleticamente preparati e in buona salute, ma non all'altezza dell'impresa in caso di gravi emergenze. E vuoi che oltre gli ottomila metri di emergenze non ne capitino? Nel loro caso il destino si è accanito, in un mix letale di imprudenze, di incoscienza, di condizioni climatiche. Ottimo il cast nel suo insieme, ricco di attori noti. Jason Clarke, faccia da persona comune, è il protagonista, un uomo che fa il suo mestiere con oculatezza, anche se oltre un certo punto sarà vana; Jake Gyllenhaal che lo fa con spirito più hippie. Gli altri collaboratori sono affidati a Sam Worthington, Martin Henderson, Emma Watson, Thomas M. Wright, all'eroico Ingvar Eggert Sigurôsson, tutti con le loro diverse sfumature, tutti però molto legati e solidali ma costretti ad arrendersi di fronte alla fredda (anche lei) legge della sopravvivenza (come con grande efficacia si raccontava in un altro bel film sulla montagna, La morte sospesa). E i clienti con diverse caratteristiche: lo sbruffone Josh Brolin; il sognatore John Hawkes, la coraggiosa Naoko Mori. A casa, lontane, assistono impotenti due mogli, Keira Knightley e Robin Wright. Ci si interroga sulle motivazioni che spingono persone "normali" a mettersi in certe situazioni, a sfidare certi rischi, a scalare l'Everest insomma (da quando nel 1943 Sir Edmund Hillary e lo Sherpa Tenzing Norgay sono arrivati in vetta, 5000 persone hanno tentato la scalata e 220 sono morte). Perché "è lì", perché "posso". Ma anche per vedere "la bellezza", perché "mi sento incompleto". O semplicemente perché si è deciso che quello è il mestiere col quale guadagnarsi la vita, facendo quello che si ama, anche se costa fatica, sofferenza. Ma così è e così continua a succedere. Dirige l'islandese Baltasar Kormákur (101 Reykjavik e il remake Contraband e Cani Sciolti), con un budget di 65 milioni, girando fra Nepal, Sud Tirolo e il ghiacciaio della Val Senales in Alto Adige, in mezzo a panorami che definire "mozzafiato" è banale (più che in 3D consigliamo il film in Imax). Senza troppe polemiche sull'addomesticamento della montagna (e sul conseguente inquinamento), il regista mira a raccontare un'avventura vera, appassionante anche se la fine è nota, ansiogena e sconfortante. Perché il castigo per gli errori è implacabile, al di là dell'umana comprensione per certi comportamenti, e la "tenerezza" umana non può che finire schiacciata dalla durezza nella natura, che non fa mai sconti. Non sappiamo se la versione dei fatti darà adito a ulteriori polemiche sulla meccanica degli eventi, staremo a vedere. Nel frattempo, altri sono morti. Perché mai smettiamo di ribellarci alla fragilità dei nostri corpi, alla limitatezza del tempo che ci è concesso e vogliamo lasciare un segno del nostro passaggio, fosse anche una misera bandierina su una vetta inarrivabile.

 

Giudizio

  • Memento audere semper?
  • 8/10

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