Gli anni ’30 e il cinema sonoro. La vera svolta per il genere arriva, però, con la codificazione della Settima Arte in linguaggio dotato di strumenti narrativi suoi propri (primo tra tutti: il montaggio) e si collega alla sua prima, grande evoluzione tecnologica: l’avvento del sonoro nel 1927. Il titolo della pellicola che sancisce definitivamente la nascita del filone catastrofico sul grande schermo è Deluge (letteralmente «diluvio», ma il titolo italiano è decisamente più eloquente: La distruzione del mondo), nel quale una serie di terremoti distrugge completamente la costa Est degli Stati Uniti provocando un’inondazione che sommerge la città di New York. Diretto da Felix E. Feist, Deluge utilizzò effetti speciali spettacolari per l’epoca al fine di sviluppare uno tsunami credibile e terrificante. È interessante notare come proprio questa spettacolare sequenza sarà d’ispirazione per lo stesso Emmerich nella sua personale visione di Manhattan sommersa da un’onda anomala in The day after tomorrow.
Se l’evoluzione tecnologica del cinema aiuta il filone catastrofico, occorre, però, rilevare che esso non è ancora il genere compiutamente sviluppato che conosciamo oggi, capace di produrre un proprio insieme di codici narrativi.
Ecco perché, nel corso degli anni ’30, esso si «appoggia» ad altri generi (il film drammatico, principalmente, ma anche la classica love story) e si limita a raccontare, inserendovi, ovviamente, elementi di fiction, disastri naturali realmente accaduti. In particolare, tre titoli si richiamano esplicitamente a questa logica. Il primo è Gli ultimi giorni di Pompei (1935), kolossal di Ernest B. Schoedsack e Merian C. Cooper (gli stessi che due anni prima avevano creato King Kong) incentrato sull’eruzione del Vesuvio che, nel 79 d.C., distrusse la città campana. L’anno seguente è la volta di San Francisco, nel quale un triangolo amoroso che vede coinvolti Clark Gable, Spencer Tracy e Jeanette MacDonald viene risolto dal terribile terremoto che nel 1906 ridusse in macerie la città che da il titolo al film. Nel 1937, infine, Tyrone Power è il protagonista di In old Chicago, nel quale interpreta uno dei due figli di Catherine O'Leary, la proprietaria del fienile dato alle fiamme da una lanterna scalciata da una delle mucche che vi riposavano e che diede inizio al grande incendio di Chicago del 1871, uno dei più grandi disastri avvenuti in America nel XIX secolo.
Lo scoppio della II Guerra Mondiale, con le sue catastrofi reali e tangibili, non presenta, ovviamente, un clima particolarmente propizio per la rappresentazione di ulteriori disastri sul grande schermo e il genere catastrofico, dunque, va in letargo per un decennio.
Le tensioni della Guerra Fredda e la paura del nucleare. Al contrario, gli anni ’50 e ’60, attraversati dalle ansie, dai sospetti e dalla sensazione di costante pericolo introdotti dalla Guerra Fredda, offrono un contesto sociale, politico e, soprattutto, emotivo incredibilmente adatto a tale genere che scopre il nucleare come possibile origine delle più terribili devastazioni.
Stanley Kramer, otto anni prima di dirigere un gioiello della commedia americana come Indovina chi viene a cena?, realizza, coadiuvato da un cast stellare composto da Gregory Peck, Ava Gardner, Fred Astaire e Anthony Perkins, una pellicola pervasa dal pessimismo e dal senso di angoscia di quegli anni: L’ultima spiaggia. Un film solo apparentemente di fantascienza, essendo ambientato nel 1964, in cui il destino dell’uomo è segnato dalla rivalità delle superpotenze mondiali, responsabili della guerra atomica che ha distrutto il mondo.
Molto più ottimista, invece, sarà Ray Milland in una delle sue rare prove dietro la macchina da presa (mentre è impossibile non ricordarlo nei panni del machiavellico marito tradito, mandante de Il delitto perfetto di Hitchcock) con Il giorno dopo la fine del mondo (1962) nel quale la famiglia Baldwin scampa miracolosamente alla distruzione nucleare di Los Angeles e deve fare i conti con le conseguenze morali e civili del caos che fa seguito ad una simile situazione. Il richiamo all’obbedienza, alla violenza cui è giusto, in determinati frangenti, rispondere con altrettanta violenza e la speranza riposta nella «cavalleria», cioè nell’esercito americano che, però, non appare del tutto innocente in merito allo scoppio della guerra, sono espressioni di una fiducia un po’ ingenua nelle istituzioni, quella di certo popolo americano, ma rappresentano, forse, l’unico appiglio possibile in tanta disperazione.
Una disperazione, invece, ben presente in A prova di errore (1964) del maestro Sidney Lumet, caratterizzato da una sequenza infinita d’incidenti, fraintendimenti, sospetti e minacce tra forze armate di USA e URSS e che termina, inevitabilmente, con la distruzione di Mosca e New York. La tensione tra le due superpotenze, l’atmosfera di reciproca diffidenza e di malcelato disprezzo produce una serie di equivoci quasi risibile, se il suo esito non fosse la tragica morte di milioni d’innocenti sulla quale Lumet non indugia, pietosamente, pur evidenziandone l’insopportabile dolore.
Anni ’70: ascesa e declino del disaster movie come genere autonomo. Nonostante il ventennio ’50-’60 sia fondamentale per il rilancio del disaster movie, la sua piena affermazione avviene nei dieci anni successivi e si inaugura, precisamente, il 5 Marzo 1970, giorno dell’uscita nelle sale americane di Airport. Il film di George Seaton è il primo a sviluppare una struttura drammaturgica totalmente incentrata sulla catastrofe, mostrata nel film grazie alla maestria dei tecnici degli effetti speciali. I vari filoni narrativi (la love story, il thriller, il dramma), prima centrali nei film del genere, quando esso non era ancora pienamente codificato, ora ruotano attorno al disastro, che diventa il vero motore della storia. E il pubblico premia questa evoluzione con un successo, per l’epoca, considerevole (quasi dodici milioni di dollari incassati solo sul mercato interno, in 26 settimane di programmazione).
La codificazione del film catastrofico si perfeziona con almeno tre titoli successivi, non a caso indicati da Roland Emmerich come suoi film preferiti: L’avventura del Poseidon (1972), L’inferno di cristallo e Terremoto (entrambi del 1974).
La storia, con protagonista Gene Hackman, della lussuosa nave da crociera Poseidon e del disperato tentativo di fuga di un piccolo gruppo di passeggeri, dopo lo tsunami che l’ha travolta, ribaltandola, è ormai un classico della storia del cinema, anche grazie alle straordinarie scenografie «sottosopra» di William Creber, ad ulteriore conferma dell’esigenza di comparti tecnici straordinari per un genere che ha la sua ragion d’essere proprio nella «verosimiglianza dell’incredibile».
Proprio un particolare spunto tecnico è alla base, poi, dell’importanza di un film altrimenti trascurabile come Terremoto. La pellicola, infatti, arrivò nei cinema accompagnata da un’innovativa tecnologia del suono, il Sensurround, la quale incrementò notevolmente il potenziale di tensione e suggestioni offerto dalla storia, focalizzata su un sisma che rade al suolo Los Angeles: nelle sequenze del terremoto, le basse frequenze, trasmesse a volume molto elevato, facevano tremare davvero le poltrone del cinema, coinvolgendo maggiormente lo spettatore.
L’apice, però, del disaster movie anni ’70 viene raggiunto senza ombra di dubbio con L’inferno di cristallo, firmato da Irwin Allen e John Guillermin ed interpretato da Steve McQueen, Paul Newman, William Holden e Faye Dunaway. L’incendio di un grattacielo avveniristico, ma costruito risparmiando colpevolmente sui materiali e le misure di sicurezza, è solo l’inizio di 165 minuti di ritmo frenetico e tensione senza limiti, tra ascensori pericolanti, esplosioni improvvise, elicotteri di salvataggio che si schiantano sul tetto dell’edificio e teleferiche che precipitano al suolo per l’eccessivo carico di alcuni disperati in cerca di una via di fuga.
Come scrive il compianto Tullio Kezich nella raccolta Il Mille film. Dieci anni al cinema 1967-1977, “se si ha il gusto della catastrofe, The towering inferno può soddisfare per grandiosità e realismo qualsiasi esigenza apocalittica”. In effetti, la catastrofe, l’apocalisse, non era mai stata così reale al cinema e il box office rese omaggio all’immane sforzo produttivo della 20th Century Fox e della Warner Bros. (un dato su tutti: su 57 set costruiti in teatri di posa, solo 8 rimasero in piedi alla fine delle riprese) con un incasso che giunse a superare i 107 milioni di dollari.
Ma i tempi dei successi al botteghino per il disaster movie stavano per finire.
La conclusione degli anni ’70 segnerà, infatti, anche il declino del genere, sancito definitivamente nel 1980 dalla prima, geniale parodia di Airport, il film che, dieci anni prima, aveva contribuito a svilupparlo in maniera compiuta. L’aereo più pazzo del mondo, uno dei capolavori del trio (Jim) Abrahams, (David) Zucker e (Jerry) Zucker, sbeffeggiando con impietosa efficacia i cliché del filone catastrofico, sembra condannarlo ad un definitivo oblio.
Nuovo Millennio, nuove distruzioni: l’avvento della computer graphic. Ancora una volta, però, come già avvenuto negli anni ’30, il progresso della tecnologia applicata alla Settima Arte, occorso dalla metà degli anni ’90 con lo sviluppo della computer graphic, offre nuove possibilità di rappresentazione cinematografica del disastro.
Inizia, con Independence day (1996), quella che può esser definita l’«era Emmerich», il quale si confermerà maestro del genere otto anni più tardi con The day after tomorrow – L’alba del giorno dopo. Un’epoca caratterizzata da un realismo mai sognato prima, e, soprattutto, ottenuto a costi notevolmente ridotti. Quest’ultimo, fondamentale elemento permette di spingere la fantasia nell’ideazione delle storie oltre i limiti che, fino a quel momento, la fisicità di set materialmente costruiti avevano imposto.
Ecco, quindi, i meteoriti schiantarsi sul nostro pianeta in Armageddon, del «giocattolaio» Michael Bay, e in Deep impact di Mimi Leder (usciti entrambi nel 1998), o gli sconvolgimenti della crosta terrestre causati dal malfunzionamento del nucleo del nostro pianeta in The core (2003), pellicola mediocre ma con almeno due fattori degni di merito: la presenza del premio Oscar Hilary Swank come protagonista e la distruzione, per la prima volta sullo schermo, di uno dei monumenti esteticamente meno apprezzabili della capitale d’Italia, l’Altare della patria.
Una rinascita, quella del disaster movie, che vede ancora Roland Emmerich suo indiscusso protagonista e che sembra destinata ad un radioso futuro.
Almeno fino al 2012…