Se al feuilleton classico mischiamo elementi di fantasy e thriller, con una spolverata di esoterismo, superstizioni, fanatismi e profezie, molto morti ammazzati spesso crudelmente, e poi monumenti, quadri e letteratura del nostro Rinascimento, fra demoni e dei, arriviamo a Dan Brown, dal cui romanzo Inferno è stato tratto il terzo film con il Professor Robert Langdon, noto simbolista di Harvard, come protagonista. Il personaggio è sempre affidato a un Tom Hanks che ormai sta diventando meno credibile, al di là della sua innata bonomia, perché troppo avanti con gli anni rispetto al personaggio. Questa volta siamo a Firenze, Venezia e Istanbul, alla caccia di un letale virus che scatenerebbe sulla Terra un’epidemia globale e definitiva, con la quale ripulire il pianeta una volta per tutte, muoia Sansone con tutti i Filistei. Lo affianca una coraggiosa (anche troppo) dottoressa, con la quale tappa dopo tappa Langdon arriva al nucleo della faccenda, schivando pallottole e pugnalate, veleni e tradimenti. Infatti lo insegue un codazzo di infidi individui, appartenenti a poco chiare organizzazioni nelle quali non si capisce chi giochi per il bene collettivo e chi solo per il proprio. Il Professore si ritrova come importantissima pedina del gioco, ma senza sapere perché, in quanto è frullato nell’azione più frenetica mentre è afflitto da una smemoratezza che copre gli ultimi suoi giorni, dopo un forte trauma alla testa. Così Langdon dovrà risalire all’accaduto non solo tramite la consueta soluzione di enigmi legati a letteratura e opere d’arte varie, ma anche rimettendo insieme i brandelli dei ricordi che angosciosamente si affacciano alla sua memoria, mischiati a orribili incubi e allucinazioni angosciose. Fa da filo conduttore il nostro Dante, sfruttato da un folle dalle mire degne di un capo della Spectre, quanto a intenzioni apocalittiche. Dirige Ron Howard, con una messa in scena di mestiere, pochissime scene d’azione, visioni da cartolina delle città coinvolte, i soliti luoghi comuni sugli italiani (a voler essere maligni, una battuta sembra una ritorsione per il caso Meredith Kercher), mentre il doppiaggio “smarmella” le differenze linguistiche fra protagonisti e “indigeni” con qualche situazione che genera ilarità. Il ricco cast fa il minimo sindacale, con la presenza di qualche faccia nota nostrana. Per il buon Robert c’è pure una parentesi “rosa”. Pur sospendendo qualunque incredulità e rassegnandosi ad accettare l’incredibile velocità con cui Langdon risolve indovinelli, anagrammi e altri giochi da settimana enigmistica, scova indizi, mentre si sposta da un luogo all’altro, imprendibile anche se dal fisico da borghese tranquillo, non fatica a lasciarsi coinvolgere da una storia che non riesce mai a conseguire un minimo di verosimiglianza, già vista nelle sue “linee guida” troppe volte. La sceneggiatura di David Koepp commette fra l’altro l’errore di mutare l’unica cosa che valeva nel libro e cioè il finale, appiattendolo in una conclusione di s-confortante banalità.