Anni che divideranno crudelmente genitori e figli, vecchi e giovani. La coppia, che vive in una bella fattoria lontana dalla città, ha una figlia, bella e dolce. Solo un problema, ai tempi forse vissuto più drammaticamente che ai nostri giorni: la piccola Merry è balbuziente, difetto allora mal curato e che la espone allo sbeffeggiamento dei compagni. Cresce isolata e sensibile, fra l’amore incondizionato di papà e un atteggiamento più severo da parte di mamma. Un giorno però le immagini della guerra del Vietnam, viste casualmente in televisione, la sconvolgono. Merry cresce sempre più incredula che si possa vivere serenamente senza subire le conseguenze di tante crudeltà compiute in quel lontano paese, senza che si paghi un prezzo per tali ingiuste sofferenze inflitte. Nessuno riesce a darle un’accettabile prospettiva. Mal seguita da una nefasta terapeuta, incompresa dalla madre e troppo vanamente protetta dal padre, si darà al terrorismo, fenomeno che ha provocato negli USA numerose vittime. Erano bianchi che combattevano al fianco nei neri (erano pure i tempi della segregazione razziale più feroce), contro guerra e discriminazione, genericamente contro quel “Potere” che in effetti mai ha allentato la sua presa sulle vite dei “sudditi”, ingannandoli con le solite sirene del consumismo. Il terrorismo interno americano è un fenomeno da noi quasi ignorato, anche perché a quei tempi avevamo le nostre gatte da pelare (l’argomento era trattato di recente nel film La regola del silenzio con Robert Redford o più indietro nel tempo da Sidney Lumet in Vivere in fuga). Se infatti si pensa oggi al terrorismo interno di quel paese viene in mente Oklahoma City, o la recente rivolta dei Fratelli Bundy in Oregon, gente che rifiuta lo stato centrale, che batte una propria moneta, mentre le radici sono più lontane. Ma non è questo che interessa in questa Pastorale americana. Interessa che in questo dissidio, in questa distorsione prende avvio la caduta della famiglia, il suo disgregamento, che mostra tutto l’equivoco su cui si fondava, e, nelle intenzioni dello scrittore, tutta la falsità del “Sogno”. Ewan McGregor per la sua prima volta alla regia sceglie infatti di mettere in scena un romanzo di Philip Roth, in una lettura che privilegia il rapporto padre/figlia. Pastorale americana è soprattutto una storia di protezione inutile, di incomprensione dolorosa, la vana lotta di un uomo convinto di non essere spregevole come lo si accusa, privo però di anticorpi sufficienti a sopravvivere, privo di quella capacità di anestetizzare l’anima, di quella “cattiva coscienza” che permette a tanti di vivere sopra le infinite ingiustizie che invece devasta le vite di altri. Qualcuno le colpe dei padri se le carica tutte sulle spalle. Ma per manchevolezze della sceneggiatura che non scava a sufficienza né nei personaggi né nel contesto generale e non rende plausibili certe svolte (e forse anche per colpa di una direzione degli attori non adeguata), la storia non decolla, il dramma personale e collettivo non colpisce il bersaglio e McGregor fallisce in questo suo primo esperimento. Tutto il dramma si assopisce nel tono monocorde nel quale si stempera anche l’angoscia del padre, che resta il personaggio meglio scritto, cui McGregor attore conferisce tutto lo smarrimento di un uomo cui era stato “promesso” che se rispetti le regole quel premio lo avrai, quel Sogno sarà tuo, perché te lo sei meritato. Un calvinista di origini ebree. Il film soffre anche perché rispetta la struttura narrativa del libro, che fa raccontare la vicenda all’alter ego di Roth, Nathan Zuckerman, personaggio presente in nove romanzi, qui sostanzialmente inutile e che in qualche modo raffredda ulteriormente la materia.