Avverso al nazismo, ma ben conscio del rischio che avrebbe corso mostrando il suo dissenso, Otto inizia a scrivere cartoline con poche essenziali frasi di protesta, che lascia lungo scale e corridoi di palazzi pubblici molto frequentati, sperando così di piantare un seme capace di germogliare. Ma la maggior parte delle cartoline finisce nelle mani della Polizia che inizia a dare la caccia al misterioso contestatore. Intanto con l’aiuto della moglie, Otto espande la sua zona, rischiando sempre di più, perché la Gestapo fa irruzione nelle indagini, condotte fino a quel momento dalla Polizia locale. Il film Lettere da Berlino è tratto da un libro scritto nel ’47 da Hans Fallada, Ognuno muore solo, a sua volta ispirato ad una storia vera, e il titolo internazionale Alone in Berlin è più aderente alla sostanza, perché soli erano i Quangel, impossibilitati a fidarsi di nessuno, nella loro drammatica resistenza forse minuscola, che forse non ha portato a nessun risultato tangibile nell’immediato. Su 300 cartoline circa una ventina solamente non sono state consegnate alla Polizia, chissà che fine hanno fatto le altre. Ma forse anche se in pochissimi, una traccia il sacrificio dei due sventurati coniugi ha lasciato. Ne valeva la pena? A posteriori si dice sempre di sì, anche se la fine della guerra non ha significato la fine del nazismo inteso come ideologia, non come regime. Nella storia della cosiddetta “umanità” molti hanno davvero dato quella vita cui alludeva (si dice) Voltaire nel famoso motto “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”, motto che autentico o no, ha finito per avvallare con eccessiva generosità l’espressione di qualunque bestialità. Oggi che dal web si possono vomitare sul prossimo insulti e false informazioni senza pagare la minima conseguenza, una storia come questa potrà sembrare marziana ai più giovani. La ghigliottina per una cartolina di dissenso lasciata in un angolo di strada? Ma allora anche per molto meno si finiva giustiziati, in mezzo al consenso diffuso (poco è stato approfondito il tema della resistenza interna dei tedeschi a un regime poi condannato da quasi tutti, ma nei fatti assai poco osteggiato), regime che si reggeva anche sul pervasivo controllo del privato e del pubblico, grazie a reti di vigliacchi delatori, colleghi o vicini di casa pronti a denunciare chiunque pur di accumulare favori dalla Polizia politica, nell’illusione di mettersi così al riparo da future ritorsioni. E così, osteggiando, si aveva la quasi totale certezza di finire ammazzati, perché i regimi del terrore funzionano eccome e quello nazista in special modo. Ricordiamo un’altra storia portata al cinema, La rosa bianca, in cui semplici volantini di dissenso avevano provocato l’esecuzione dei responsabili, tutti adolescenti, tutti ghigliottinata dopo giorni di torture. Quanto al film diretto da Vincent Perez, noto anche come attore, è un’opera diligente, senza voli pindarici né nella forma, né nella sostanza, monocorde anche se interpretata con rigore da un cast di ottimi attori. Ai nostri occhi ormai disincantati sembra mettere in scena una serie di cliché sui nazisti cattivi, come anche in altri film degli ultimi tempi (Il bambino con il pigiama a righe, Suite francese, Storia di una ladra di libri), che temiamo per i giovani di oggi siano meno efficaci di Hunger Games, perché la malvagità del potere lì è più spettacolare. Ma ammesso che qualche ragazzo oggi vada al cinema a vedere un film come questo, dovrebbe riflettere e ringraziare anche i coniugi Quangel, per aver osato nel loro piccolissimo contrastare la mostruosità di un regime al quale sono stati sottratti, per poter oggi felicemente insultare il prossimo da facebook e twitter, nei nostri tempi di democratica libertà. Liberi in questo di essere a fianco di qualche filonazista che propugna il proprio diritto a diffondere le sue convinzioni a muso duro, proprio nel nome del suddetto filosofo o chi per esso. Pronto poi, nel caso andasse al potere, ad ammazzare chiunque la pensasse diversamente, è ovvio.