Il film Race racconta la vicenda umana e sportiva di Jesse Owens, atleta di colore, che dopo molte personali ambasce parteciperà alle Olimpiadi, vincendo, lui “negro” ben quattro medaglie d’oro, tre individuali (100 e 200 metri e salto in lungo) e una per la staffetta (record che sarà uguagliato solo nel 1984 da Carl Lewis alle Olimpiadi di Los Angeles). Owens, ragazzo di umilissima famiglia, si è preso le sue soddisfazioni nella vita, passando alla storia. Ma questo non gli ha assicurato un futuro troppo roseo. Perché mentre gli americani assistevano con crescente indignazione all’escalation della Germania nazista, dentro i loro confini continuavano a discriminare ferocemente la gente di colore e a guardare (anche loro) con scarsa simpatia gli ebrei. E infatti, dopo le vittorie di Owens, Brundage, coinvolto in giri d’affari con il Terzo Reich, sotto la pressione di Goebbels accetterà di non far gareggiare gli unici due atleti ebrei. La storia è andata con sfumature diverse da quanto racconta il film, ma in sostanza al ritorno in patria, Rooseveld non incontrerà alla Casa Bianca Owens, che riceverà solo nel 1976 la Medaglia presidenziale della libertà da Gerald Ford, e sotto Bush la Medaglia d’oro del Congresso nel 1990, campando per anni con gare in cui sfidava anche cavalli, con lavori di ogni genere, ma anche come preparatore degli Harlem Globetrotters. Un altro elemento di discussione riguarda il famoso saluto di Hitler all’atleta, che il film afferma non essersi mai verificato, mentre esiste un’altra versione. Stephan James, già visto in Selma, si impegna per immedesimarsi nel suo personaggio, forse troppo levigato, “moderno” per essere del tutto credibile. Jason Sudeikis al suo primo ruolo “serio” se la cava con onore, allenatore dell’Ohio discriminato anche lui perché non facente parte del giro delle Università che contavano. Jeremy Irons è un Brundage con sfumature meno marcatamente filo-nazi che nella realtà (curiosa coincidenza le simpatie naziste da parte di molti membri di altro livello dello sport mondiale, da Max Mosley e Bernie Ecclestone, senza dimenticare le simpatie franchiste di Samarach). Il boicottaggio avrebbe messo tutto in discussione, ma avrebbe tolto a molti atleti la possibilità di gareggiare e di vincere. E, nel caso di Owens, consigliato a non partecipare per non avvallare il comportamento razzista della Germania (ma anche degli USA), gli avrebbe sottratto la possibilità di conseguire vittorie vissute come veri affronti da certi “bianchi” da una parte e dall’altra dell’Atlantico. Secondo film a lui dedicato, il precedente era stato un film tv The Jesse Owens Story, e compare anche in Unbroken di Angelina Jolie, Race è una di quelle storie alle quali non si chiedono voli narrativi particolari, né interpretazioni sopra la norma. Race è uno di quei prodotti storici/biografici/didascalici che raccontano fatti degni di nota, storie vere, utili da conoscere ancora oggi. Peccato che il pubblico che più le ignora, quello giovane, raramente sia consumatore di storie di questo genere, attratto da film differenti (e Spike Lee ne avrebbe, da dire). E la regia senza voli autoriali di Stephen Hopkins, già al lavoro su molte serie tv, non è certo travolgente. Il regista mette in scena pianamente lo svolgersi degli eventi, non mancando però di evidenziare, anche per i più distratti, che i nazisti sì erano cattivissimi, ma anche gli americani con il razzismo non ci sono mai andati leggeri. Tornato in patria con tutti gli onori, Owens sarà costretto a entrare dal retro del Waldorf dove si teneva una cena in suo onore. La segregazione razziale sarebbe durata ancora 30 anni e, anche se si esplica diversamente, non è che sia finita, come ci conferma quasi quotidianamente la cronaca. Ma come abbiamo spesso fatto notare, il marketing del Grande Paese ha funzionato così bene da far sembrare ogni risvolto negativo, ogni loro vergogna e fallimento, e non sono mai stati pochi, trascurabile rispetto ai progressi compiuti. Peccato che la bilancia non sia andata in pari, nemmeno arrivando ad oggi.