Qui, tecnicamente in modo tradizionale e raffinato, ci racconta una storia che si potrebbe sintetizzare come una specie di Deep Impact o un qualunque Armageddon meno spettacolare. Che in realtà, secondo il regista, vuol dire molte altre cose, alcune delle quali ovviamente sono lui conosce, influenzate anche dalla depressione di cui ha sofferto, oltre che dal suo difficile rapporto con l’altro sesso (vedi Antichrist). Il prologo del film è splendido, quasi dieci minuti di immagini esteticamente ammalianti, fotogrammi fissi o rallentati all’estremo sulla musica meravigliosa del Tristano e Isotta di Wagner, quasi un sunto veloce della vicenda. Poi le restanti due ore di film sono suddivise in due capitoli, dedicati alle sorelle protagoniste, Justine, Kirsten Dunst (premiata con la Palma d’oro a Cannes), e Claire, Charlotte Gainsbourgh. Le due giovani donne sono legate fra loro ma hanno personalità molto diverse. Claire è moglie e madre, gestisce l’impresa di famiglia che è una lussuosa magione in mezzo a prati, campi da golf e boschi intatti ed è anche l’impeccabile organizzatrice del matrimonio di Justine che occupa la prima parte del film, in uno stile già inevitabilmente definito “alla Festen”, in quanto quadro algido dell’opulenza e infelicità di una ricca famiglia borghese. Justine però è incapace anche solo di indossare la maschera della felicità che le viene richiesta dalla circostanza e tutto precipita nel fallimento. Intanto veniamo a sapere che dai recessi dell’Universo un pianeta, chiamato Melancholia, sta per travolgere la Terra nella sua corsa attraverso lo spazio. Nella seconda parte tutto precipita, insieme al pianeta che dai lontani cieli ha continuato a rotolare inesorabile verso il suo impatto distruttivo. Justine, che arriva alla villa stremata dalla sua depressione, reagisce a questa circostanza meglio della povera Claire, che invano, da pragmatica quale è, si affanna nella speranza di una soluzione, pronta ad aggrapparsi a qualunque bugia, a organizzare improbabili strategie di fuga, a simboleggiare due approcci diversi alla consapevolezza della morte, al gioco crudele che la Natura intreccia con noi, illusi di poterla dominare.
In altri ruoli troviamo l’inaffidabile padre (John Hurt), l’odiosa madre (Charlotte Rampling), il marito di Justine Alexander Skarsgård (il mitico vampiro Eric di True Blood), mentre il marito di Claire è affidato ad un insolito Kiefer Sutherland. Stellan Skarsgård, nella realtà padre di Alexander, interpreta il cinico capo di Justine, il maggiordomo “piccolo padre” è Jesper Christensen (Quantum of Solace, Il debito), Udo Kier, cui è affidato l’unico personaggio quasi comico del film, interpreta il frustratissimo wedding planner.
Il film lascia sensazioni e riflessioni, ovviamente soggettive. Il fatto che un depresso sia in grado di affrontare meglio quell’ineluttabile tragedia che è la nostra vita, come se solo lui riuscisse a vedere oltre la superficie luccicante e ingannevole? Prima o poi tutti ci scontreremo con un “pianeta” che distruggerà la nostra vita, vale dunque la pena nel frattempo agitarsi tanto? In ogni modo la vita, una ripida salita fino all’inesorabile conclusione, si può percorrere solo a fianco di chi ci ama, ma questo non ci salverà dal fallimento. Del film, oltre alle bellissime citazioni pittoriche di Pieter Brüghel il Vecchio, del preraffaellita John Everett Millais, di Max Ernst e Giorgio De Chirico, ci resterà nella memoria una frase a sintetizzate il senso di estraneità, di fatica e di sofferenza che il depresso prova nei confronti della vita: “cammino faticosamente attraverso questo tetro cortile vuoto”.