In guerra per amore: Recensione

Di   |   28 Ottobre 2016
 In guerra per amore: Recensione

 

Madonna-Mussolini: zero a zero

Capita ogni tanto di porsi il retorico interrogativo: come siamo finiti così? Francesco Diliberto aka Pif con il suo secondo film, cerca una risposta, per capire, per spiegare una parte importante della nostra storia, che tanti pesantissimi riflessi ha avuto sul nostro sviluppo come paese civile (se una pianta ha radici malate, crescerà asfittica, deforme, malaticcia). Come in La Mafia uccide solo d’estate, Pif la prende alla lontana e la sua narrazione ha un approccio sentimentale, nel senso che la storia, anche quella con la S maiuscola, gira intorno alle vicende di piccole persone, ai loro affetti, ai loro principi, ai loro sacrifici. E ai loro errori.

 

E la prende anche in maniera poco accademica, senza la pretesa di scrivere un saggio storico, ma inserendo storie di fantasia all’interno di eventi reali. Forse non tutti sanno che nel 1943, in vista di uno sbarco in Sicilia, l’Esercito americano trova giusto consultare il mafioso Lucky Luciano, in galera dal 1936, come consulente per avere le “dritte” necessarie per sapere su chi contare sul posto, sulla morfologia dei luoghi, su eventuali simpatizzanti (storicamente il fatto è discretamente assodato). In questi casi gli amici nel mio nemico diventano miei amici, perché Luciano cessa di essere un pericoloso boss della Mafia e diventa una figura preziosa, e non per nulla sarà graziato nel 1946. In questo ambizioso affresco storico, Pif inserisce il suo personaggio, che interpreta, un umile cameriere broccolinese, che è innamorato di Flora, la bellissima nipote del padrone del ristorante, promessa però in sposa al figlio di un altro pezzo grosso. Si arruola e parte per la Sicilia, per rintracciare il padre di Flora e strappargli il consenso al matrimonio. Mentre da bravo italiano piccolo piccolo guarda solo il suo ombelico e si preoccupa solo dei fatti suoi, rischia di non accorgersi di quanto gli sta avvenendo intorno. Fatti dei quali invece ben si rende conto il Tenente Philip, persona profondamente per bene, quando vede l’ondata di delinquenti “riabilitati” in nome della loro “alleanza”. Graziati dagli Alleati in nome degli accordi stretti con la mafia americana, vengono legittimati agli occhi della misera popolazione, personaggi gattopardeschi pronti a cavalcare qualunque occasione purché niente cambi, per loro (gli americani sono maestri nel sostenere e finanziare la gente sbagliata in giro per il mondo, pensiamo a cosa hanno fatto in seguito in Italia e stendiamo un velo pietoso sul Medio Oriente). Certo Pif semplifica, pillole di storia e nulla più si dirà, quei complessi sviluppi non sono certo riconducibili solo a questi fatti. Ma il film non è un trattato antropologico o un documentario o saggio storico. Infatti ben più complesso sarebbe spiegare certe caratteristiche della nostra peggiore “italianità”, chi risale ai Borboni, chi alla Chiesa Cattolica. Ugualmente questo più recente utilizzo istituzionale della mafia bene non ha fatto, nelle aree interessate. Un cast di facce ben scelte e poco conosciute contribuisce alla riuscita della storia, segnaliamo Andrea Di Stefano, che è l’integerrimo Tenente, e la ben assortita coppia di poveracci Sergio Vespertino e Maurizio Bologna. Miriam Leone è la bellissima Flora, di quella bellezza di oggi, troppo internazionale. Il film sarà accusato di essere “furbo”, perché cerca di piacere con il taglio dato ai personaggi, che implica qualche siparietto di moderata comicità, e per la semplificazione che fa della storia. E non tutto è perfetto, c’è il solito eccesso di sentimentalismo e di facile retorica, si citano modelli troppo alti, l’uso delle musiche è a tratti invadente. Ma tutto fino ad un certo punto, perché gli eventi narrati sono veri e se una parte del pubblico “ggiovane” di Pif andrà a vedere il film, qualcosa imparerà (per approfondire basta legge su google, sull’argomento ci sono articoli di siti affidabili). Per assurdo, il prossimo film di Pif, che come regista sta imparando bene il mestiere, potrebbe raccontare gli anni successivi arrivando fino a Cossiga e Gladio. Chissà, forse a riscrivere la storia italica per le masse sarà questo ragazzo cresciuto di 44anni, che con garbo e sentimentalismo, con un lieto fine che non è caramelloso perché si vena di amarezza, non sembra rassegnarsi allo spettacolo indegno che questo paese offre di sé da anni e continua a chiedersi perché, come mai.

 

Giudizio

  • Benigni non c’entra nulla
  • 7/10