Dentro, nell'ammasso di ferraglia ferito, c'è un gruppetto di sopravvissuti, i protagonisti del film diretto da David Ayer, abbrutiti, sconvolti da troppi mesi di orrori. Non c'è nulla di epico e glorioso nel loro avanzare, solo un trascinarsi lento fra campi devastati e cittadine semi-distrutte. Dovunque solo fango, freddo, cataste di cadaveri da seppellire nelle fosse comuni, gli accampamenti americani rigurgitanti prigionieri tedeschi, in un grigiore opprimente e raggelante. Faremo la loro conoscenza, per affezionarci a qualcuno e detestarne qualcun altro, per ritrovarci alla fine con loro, bloccati in un carro a fare da argine contro l'avanzata del Male, in un finale disperato alla Wild Bunch. David Ayer non è Spielberg o Malick e la vita del carrista è già stata esplorata con ben maggiore realismo in Lebanon. Tutto in effetto è già stato raccontato meglio e con meno enfasi retorica, con meno compiaciuto gusto per la macelleria. Ayer, come già dicevamo di recente parlando del suo penultimo film, Sabotage, divenuto famoso con la sceneggiatura di Training Days, è un regista discontinuo e non ha ancora firmato un film che fosse del tutto convincente, c'era sempre qualche dettaglio imperfetto a rovinare storie interessanti come Harsh Times, La notte non aspetta o End of Watch. Come scrittore ama i personaggi caricati e melodrammatici, ama le amicizie virili forti, votate al cupio dissolvi, che siano poliziotti o soldati in un mondo sempre quasi esclusivamente di uomini. E aggiunge in continuazione (mai sottraendo) per essere ben sicuro di dare la botta allo stomaco (che invece almeno noi europei abbiamo ben foderato di ghisa). Fury diventa così la solita carrellata di orrori bellici, qui appesantita da eccessi splatter, della durata di due ore e un quarto (e si sarebbe potuto ridurre). Ben girate le scene belliche, con i duelli fra i micidiali carri tedeschi Tiger e i più leggeri Sherman (a parte la discutibile trovata di rappresentare le traiettorie dei proiettili come raggi laser). La bella fotografia cupa e monocromatica di Roman Vasyanov è immersa nella musica enfatica e melodrammatica di Steven Price. Brad Pitt, con un taglio di capelli improbabile per gli anni '40, è il classico leader paterno e carismatico, duro e instancabile, che deve prendersi cura degli uomini che contano su di lui, minato nell'anima (come il Capitano Miller di Tom Hanks) dai continui orrori e dal peso della responsabilità. Da manuale la contrapposizione fra il suo personaggio, di durezza necessaria ma ormai disumana, e il novellino Norman, topo da biblioteca scaraventato in prima linea, assegnato come rincalzo, affidato a Logan Lerman, qui alla sua prova più matura. Il che si può dire anche per Shia LaBeouf e Michael Peña e Jon Bernthal, tutti al loro meglio, all'interno di troppo risaputi cliché. I film di guerra più classici ormai ci farebbero il solletico, abituati come siamo ai tempi nostri, i palati anestetizzati da troppo di tutto, con una visione sbagliata delle guerre, che da lontano sembrano sempre più "pulite". Per restare impressionati dobbiamo essere colpiti con maggiore durezza e allora si deve calcare la mano, cosa che Ayer fa con entusiasmo. Resta che se uno in guerra non c'è stato, anche a rincarare la dose non capirà mai esattamente di quale orrore infinito si tratti.