On the Road: Recensione
Di Giuliana Molteni | 11 Ottobre 2012These boots are made for walkin'
"Dove andiamo?", "Non lo so, ma dobbiamo andare". Una strada sotto ai piedi, un'auto e scarpe per percorrerla, carta e matita per scriverne. E amici e amanti, e droghe e alcol. On the Road è il più celebre romanzo di Jack Kerouac, definito il manifesto della Beat Generation, pubblicato nel 1955 anche se terminato nel '51. Appesantito da troppe aspettative e da una troppo lunga gestazione, arriva adesso sugli schermi in una versione di 137 minuti, con la regia di Walter Salles e la sceneggiatura di Jose Rivera, già responsabile di un altro famoso road movie, I diari della motocicletta. Fra il 1947 e il 1951 Jack, nel film con il nome di Sal Paradise, compie quattro viaggi attraverso il grande paese, in compagnia di Dean Moriarty (in realtà Neal Cassidy), ponendo le basi di quello che sarebbe stato il romanzo che lo avrebbe consegnato alla posterità, Sulla strada.
Il film racconta tutto quell'andare e venire, da est verso ovest e a sud e ritorno, in auto e a piedi, esposti alle intemperie, ogni tanto lavorando faticosamente per quattro soldi, sempre in miseria ma sempre a far baldoria appena possibile, vivendo e subito dopo prendendo appunti così che alla fine tutta la mole degli avvenimenti andrà a saturare la creatività di Kerouac, come una pistola ben caricata che alla fine sparerà il suo proiettile. Quel proiettile è stato On The Road. Che purtroppo è un'opera datata quanto lo può essere un romanzo ambientato fra la fine degli anni '40 e i primi '50, anni che preludevano alla più grande rottura generazionale mai avvenuta. Qui però manca un'adeguata contestualizzazione, manca un ritratto più incisivo di una società che nella durezza del dopo guerra, che seguiva la tragedia della Grande Depressione, imponeva rigidi codici di comportamento e pesanti punizioni in caso di trasgressione, tali da provocare l'istintivo rifiuto di adeguarsi alla rassegnazione degli adulti, al destino dei propri padri. La bella favola del Sogno Americano (grande operazione di marketing) si stava rafforzando, nel momento stesso in cui si stava già accartocciando, con la "colonizzazione " definitiva del mitizzato West, grande vuoto verso il quale si tendeva a emigrare in cerca dei propri sogni dal tempo dei primi sbarchi dei coloni europei ("e sento tutta quella terra nuda che si srotola in un'unica incredibile enorme massa fino alla costa occidentale, e a tutta quella strada che corre, e a tutta quella gente che sogna nella sua immensità"). Salles traduce la pagina scritta in immagini in movimento, facendone una storia fra amici, fra emarginati, un'avventura picaresca venata di malinconia, perché il tempo incalza, la giovinezza fugge, le responsabilità si affollano. E ogni errore si paga sulla propria pelle. La beat generation è stata anche fughe, trasgressioni di droghe e sesso, ma certo non solo questo, qui il "beat" non si avverte e Sal a tratti sembra il Nick Carraway del Grande Gatsby, che assiste da emulo impotente all'ascesa e alla caduta del suo fiammeggiante eroe. Più forte allora anche se del tutto autodistruttivo il fuoco che agitava il protagonista di Trainspotting ("Scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete la famiglia.... Alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio"), che in anni più recenti dirà sulla disperazione di vivere molto di più del mitizzato romanzo di Kerouac. Il compito è svolto da Salles con amore, con un raffinato gusto filologico, manca purtroppo il bruciare della pulsione insopprimibile, manca la percezione della vera passione esistenziale che incalzava, che faceva bruciare come arde una candela, ma da entrambe le parti. E la rottura con i modelli imposti sembra allora solo puro egoistico edonismo, rifiuto di entrare nell'età adulta, banale desiderio di sballo da Una notte da leoni fra poveri. Fra gli interpreti i migliori sono Garrett Hedlund (Tron, Country Song) e Tom Sturridge (I Love Radio Rock), nel film detto Carlo Marx, in realtà era Allen Ginsberg. Più incolore, da vero spettatore molto più prudente dell'incosciente amico, è Sam Riley (Ian Curtis in Control). Ben scelti gli altri, le due donne amate da Moriarty, Kristen Stewart e Kirsten Dunst, e poi Viggo Mortensen (un folle William Burroughs), Steve Buscemi (un viscido omosessuale), Elisabeth Moss e altri noti attori, in ruoli minori. Nel film manca il frastuono vitalistico nel quale dovevano immergersi i protagonisti, fatto dal rombo dei motori, dalle note della musica jazz, dalle inutili e infinite chiacchiere, tutto pur di non sentire nel silenzio dell'immobilità l'impercettibile ticchettio delle lancette che mai si fermano, mentre il tempo inesorabile passa e "nessuno, nessuno sa quel che succederà di nessun altro se non il desolato stillicidio del diventar vecchi".
Giudizio
- Manca il “Beat”
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