Cado dalle nubi è il suo debutto alla regia dopo molte sceneggiature…Sì, ho scritto per Pompucci e la Comencini, e tre film con D’Alatri, una trilogia. Ho voluto debuttare alla regia con una commedia, perché mi piace la commedia nella sua purezza, e volevo che fosse una commedia fatta con attori di teatro. E poi perché con Luca (Luca Medici è il vero nome di Checco Zalone, ndr) sono anni che progettiamo questa cosa.
La storia ha contorni autobiografici?
Noi abbiamo avuto una grande fortuna, perché lavorando in Puglia abbiamo una forte presenza di tv locali, dove abbiamo iniziato a farci le ossa. Certo, poi non c’è altro, arrivi a un limite imprenditoriale industriale e ti devi spostare. Se continui ad agognare di vivere di questo, vieni visto un po’ così. L’autobiografia c’è, in un certo senso. Al sud questo elemento è vissuto come una specie di stravaganza.
Noi abbiamo avuto una grande fortuna, perché lavorando in Puglia abbiamo una forte presenza di tv locali, dove abbiamo iniziato a farci le ossa. Certo, poi non c’è altro, arrivi a un limite imprenditoriale industriale e ti devi spostare. Se continui ad agognare di vivere di questo, vieni visto un po’ così. L’autobiografia c’è, in un certo senso. Al sud questo elemento è vissuto come una specie di stravaganza.
In che senso è una commedia pura?
A me non piace l’ibrido, il film d’autore con qualche venatura comica. Mi piace uno schema molto semplice, che è quello di genere: preferisco la commedia. Una disciplina di questi generi favorisce molto il cinema, perché chi va a vedere un film sa cosa va a vedere. La mia idea era quella di fare una commedia: era importante avere gente calibrata per il proprio personaggio. Perché devi comunque raccontare una storia, un suo inizio, un suo percorso e una sua fine. Luca ha il suo percorso dove tutti i paletti che incontra sono le sue spalle.
A me non piace l’ibrido, il film d’autore con qualche venatura comica. Mi piace uno schema molto semplice, che è quello di genere: preferisco la commedia. Una disciplina di questi generi favorisce molto il cinema, perché chi va a vedere un film sa cosa va a vedere. La mia idea era quella di fare una commedia: era importante avere gente calibrata per il proprio personaggio. Perché devi comunque raccontare una storia, un suo inizio, un suo percorso e una sua fine. Luca ha il suo percorso dove tutti i paletti che incontra sono le sue spalle.
È difficile dirigerlo, visto che improvvisa tanto?
No, per niente. Quello che improvvisa di più sono io. Nel senso che entro in scena per dirgli “Luca dì questo, o facciamo così”. Ma questa è una modalità che a me piace molto. Non mi piace che arrivi con una carta che deve essere rispettata alla lettera. C’è un altro elemento da tenere in considerazione: tra il momento in cui scrivi un film e quello in cui lo giri, passa un po’ di tempo, che, se non sei stupido, è un tempo di riflessione su quello che hai fatto. È un tempo fatto di aggiustamenti, arrotondamenti, in cui puoi andare dentro alla materia. Quando sei su un set vedi che magari un elemento scenico è più importante.
No, per niente. Quello che improvvisa di più sono io. Nel senso che entro in scena per dirgli “Luca dì questo, o facciamo così”. Ma questa è una modalità che a me piace molto. Non mi piace che arrivi con una carta che deve essere rispettata alla lettera. C’è un altro elemento da tenere in considerazione: tra il momento in cui scrivi un film e quello in cui lo giri, passa un po’ di tempo, che, se non sei stupido, è un tempo di riflessione su quello che hai fatto. È un tempo fatto di aggiustamenti, arrotondamenti, in cui puoi andare dentro alla materia. Quando sei su un set vedi che magari un elemento scenico è più importante.
Lei e Checco vi conoscete da molto tempo. Cosa avevate fatto insieme?
Avevamo fatto delle cose assieme a TeleNorba, una tv locale. Mi ricordo il primo giorno: stavo cercando un cantante neomelodico. Lui è venuto a fare questo provino, e non aveva un cavetto per la sua tastiera. Gli ho detto di ripassare l’indomani. Invece mi ha detto: vado a casa e lo prendo. Solo che stava a Capurso, a 25 km da Bari. Così l’ho aspettato, è tornato e mi ha fatto sentire una canzone. In tv l’ho fatto debuttare io. Anche questo film ce l’avevamo un po’ in mente da un annetto, e quando ci hanno chiamato siamo andati lì a raccontare il film con le idee ben chiare.
Avevamo fatto delle cose assieme a TeleNorba, una tv locale. Mi ricordo il primo giorno: stavo cercando un cantante neomelodico. Lui è venuto a fare questo provino, e non aveva un cavetto per la sua tastiera. Gli ho detto di ripassare l’indomani. Invece mi ha detto: vado a casa e lo prendo. Solo che stava a Capurso, a 25 km da Bari. Così l’ho aspettato, è tornato e mi ha fatto sentire una canzone. In tv l’ho fatto debuttare io. Anche questo film ce l’avevamo un po’ in mente da un annetto, e quando ci hanno chiamato siamo andati lì a raccontare il film con le idee ben chiare.
Come ha raffigurato Milano?
Milano per lui fondamentalmente è il luogo dell’apertura mentale. Io dico sempre una cosa: ci sono dei luoghi che, avendo più contraddizioni, ti permettono di fare più esperienze. Se ti muovi da un posto come Polignano, dove cali mezzo chilo di pasta e mangiano tutti, nel senso che c’è pochissima gente, e arrivi a Milano dove c’è di tutto, è importante perché cresce in te una coscienza critica. Io credo che queste metropoli servano a te ad aprire la mente, a vedere tutte le contraddizioni che ci sono intorno. Milano, per quanto riguarda la musica, non è più la città di una volta. Mi ricordo che c’erano grandi concerti, grandi cose. A me non dà più questo grande appeal. Ma uno come lui che arriva da un posto piccolo, entra in un luogo enorme: arrivare in una casa di omosessuali è diverso dal fatto di averne sentito parlare. Lui è chiuso, arriva con tutte le sue chiusure mentali. Per assurdo ha una moralità che è superiore alla moralità. Nel film si ride quando scopre che quello a cui sta parlando è un prete, che è vestito in “borghese”. “Ma sei un prete? E mettiti un crocefisso”.
Milano per lui fondamentalmente è il luogo dell’apertura mentale. Io dico sempre una cosa: ci sono dei luoghi che, avendo più contraddizioni, ti permettono di fare più esperienze. Se ti muovi da un posto come Polignano, dove cali mezzo chilo di pasta e mangiano tutti, nel senso che c’è pochissima gente, e arrivi a Milano dove c’è di tutto, è importante perché cresce in te una coscienza critica. Io credo che queste metropoli servano a te ad aprire la mente, a vedere tutte le contraddizioni che ci sono intorno. Milano, per quanto riguarda la musica, non è più la città di una volta. Mi ricordo che c’erano grandi concerti, grandi cose. A me non dà più questo grande appeal. Ma uno come lui che arriva da un posto piccolo, entra in un luogo enorme: arrivare in una casa di omosessuali è diverso dal fatto di averne sentito parlare. Lui è chiuso, arriva con tutte le sue chiusure mentali. Per assurdo ha una moralità che è superiore alla moralità. Nel film si ride quando scopre che quello a cui sta parlando è un prete, che è vestito in “borghese”. “Ma sei un prete? E mettiti un crocefisso”.
Come sono i gay che ha raffigurato?
Siccome tutte le volte mi dicevano: Fabio Troiano piace alle donne, Fabio Troiano piace alle donne, ho detto: va bene, Fabio Troiano lo mettiamo a fare il gay! E devo dire che all’inizio l’ho visto titubare, e non appena gli abbiamo lisciato il capello, tutti hanno detto: questo è gay. È bastato lisciare un capello per farcela. Il mondo dei gay è quello che più mi appartiene, per quanto riguarda le mie amicizie. Tutti i miei amici vivono in quel mondo con tanta ironia e tanta intelligenza. Sono persone raffinate e sensibili, e due di loro sono quelli a cui ho attinto per la coppia gay del film: hanno un letto che si unisce e si divide quando la mamma e il papà vanno a trovarli. In commedia dai una verniciata e porti a casa la risata sul gay. Qui non c’è questa volontà, anzi c’è la volontà di vivere dentro questa realtà. Lui è uno che entra con qualche pregiudizio, ed esce quasi come difensore della causa.
Siccome tutte le volte mi dicevano: Fabio Troiano piace alle donne, Fabio Troiano piace alle donne, ho detto: va bene, Fabio Troiano lo mettiamo a fare il gay! E devo dire che all’inizio l’ho visto titubare, e non appena gli abbiamo lisciato il capello, tutti hanno detto: questo è gay. È bastato lisciare un capello per farcela. Il mondo dei gay è quello che più mi appartiene, per quanto riguarda le mie amicizie. Tutti i miei amici vivono in quel mondo con tanta ironia e tanta intelligenza. Sono persone raffinate e sensibili, e due di loro sono quelli a cui ho attinto per la coppia gay del film: hanno un letto che si unisce e si divide quando la mamma e il papà vanno a trovarli. In commedia dai una verniciata e porti a casa la risata sul gay. Qui non c’è questa volontà, anzi c’è la volontà di vivere dentro questa realtà. Lui è uno che entra con qualche pregiudizio, ed esce quasi come difensore della causa.
Anche stavolta è riuscito a cogliere qualche aspetto della realtà italiana…
Certo, guai se non sei contemporaneo nel raccontare. Ma in commedia, per assurdo, devi essere più preciso: se vuoi ironizzare devi sapere. In autorialità puoi parlare di certe cose, ma se vuoi ironizzare devi conoscere, se no non ironizzi, fai la solita pacchianata. In tutti i contesti abbiamo cercato di uscire con una commedia efficacissima ma sempre di grande gioco.
Certo, guai se non sei contemporaneo nel raccontare. Ma in commedia, per assurdo, devi essere più preciso: se vuoi ironizzare devi sapere. In autorialità puoi parlare di certe cose, ma se vuoi ironizzare devi conoscere, se no non ironizzi, fai la solita pacchianata. In tutti i contesti abbiamo cercato di uscire con una commedia efficacissima ma sempre di grande gioco.
Si ironizza anche sul mondo dello spettacolo?
Sì, lui ironizza molto su di sé, e su questa idea che ormai si ha da Disney Channel fino a Rai o Mediaset, che se non hai successo, già da ragazzino, non sei nessuno. Questa è una bella patacca che ci sta arrivando da questo mondo. Nel film diciamo che non è vero che uno su mille ce la fa. Ce la fanno tutti e mille, non è che gli altri 999 sono fessi. Volevamo abbattere questa visione che sei qualcuno se sei qualcuno nel mondo dello spettacolo. Non a caso ce la fa lui, è lui che diventa famoso non avendo alcuna struttura di linguaggio, di cultura.
Sì, lui ironizza molto su di sé, e su questa idea che ormai si ha da Disney Channel fino a Rai o Mediaset, che se non hai successo, già da ragazzino, non sei nessuno. Questa è una bella patacca che ci sta arrivando da questo mondo. Nel film diciamo che non è vero che uno su mille ce la fa. Ce la fanno tutti e mille, non è che gli altri 999 sono fessi. Volevamo abbattere questa visione che sei qualcuno se sei qualcuno nel mondo dello spettacolo. Non a caso ce la fa lui, è lui che diventa famoso non avendo alcuna struttura di linguaggio, di cultura.
Il suo ruolo di prete in Casomai è rimasto molto impresso…
Fino a pochi mesi fa ho avuto molti inviti a causa di questo ruolo. Questo prete di Casomai è stato una cosa che, le giuro, mi sono trovato a vivere in maniera strana. Avevo la tournee nelle parrocchie. Mi chiamavano e mi dicevano: ti vogliono di qua, ti vogliono di là. Mi chiamavano come ospite in A tua immagine. E poi tutte le parrocchie. Fino a quando capivo una cosa: mi chiedevano cose legate alla vita e alla fede, e io dicevo “guardate che non sono un prete”. È un casino quando devi andare in luoghi in cui devi essere un ente morale. La cosa di quel personaggio è che sono l’attore che più firma autografi ai preti. Con D’Alatri abbiamo lavorato a Via Del Conservatorio, vicino Campo De’ Fiori. Puntualmente andavo a prendere il caffè a Piazza Farnese, e avevo i preti che mi indicavano. I preti hanno preso tantissimo spunto da quella cosa, che l’Arcivescovo di Bari mi ha detto: “tu sei quello…” C’era mio figlio orgoglioso di me. Perché quel film ha fatto breccia, e ha una grande valenza. Diventerà un evergreen per lungo tempo.
Fino a pochi mesi fa ho avuto molti inviti a causa di questo ruolo. Questo prete di Casomai è stato una cosa che, le giuro, mi sono trovato a vivere in maniera strana. Avevo la tournee nelle parrocchie. Mi chiamavano e mi dicevano: ti vogliono di qua, ti vogliono di là. Mi chiamavano come ospite in A tua immagine. E poi tutte le parrocchie. Fino a quando capivo una cosa: mi chiedevano cose legate alla vita e alla fede, e io dicevo “guardate che non sono un prete”. È un casino quando devi andare in luoghi in cui devi essere un ente morale. La cosa di quel personaggio è che sono l’attore che più firma autografi ai preti. Con D’Alatri abbiamo lavorato a Via Del Conservatorio, vicino Campo De’ Fiori. Puntualmente andavo a prendere il caffè a Piazza Farnese, e avevo i preti che mi indicavano. I preti hanno preso tantissimo spunto da quella cosa, che l’Arcivescovo di Bari mi ha detto: “tu sei quello…” C’era mio figlio orgoglioso di me. Perché quel film ha fatto breccia, e ha una grande valenza. Diventerà un evergreen per lungo tempo.
Le hanno proposto anche ruoli simili come attore…
Dopo quel mio ruolo in Casomai mi offrirono un ruolo in Don Matteo. Mi misi a ridere perché pensavo a uno scherzo: siccome era nata mia figlia da pochissimo, trovai una scusa. Era un ruolo importante, mi dissero che avrei fatto un sacerdote amico di Don Matteo. “Un altro sacerdote? No, ho già fatto il parroco, perché mi devo degradare? O cardinale o niente”.
Dopo quel mio ruolo in Casomai mi offrirono un ruolo in Don Matteo. Mi misi a ridere perché pensavo a uno scherzo: siccome era nata mia figlia da pochissimo, trovai una scusa. Era un ruolo importante, mi dissero che avrei fatto un sacerdote amico di Don Matteo. “Un altro sacerdote? No, ho già fatto il parroco, perché mi devo degradare? O cardinale o niente”.
Ma come è nato quel ruolo?
Il prete non c’era in quel film. E pensando al prete Alessandro mi diceva delle cose, poi ne dicevo io a lui, ed è nato quel personaggio. Io ho scritto il film non pensando mai che l’avrei fatto io. Stavamo già lavorando al film successivo. Eravamo a un bar, gli stavo raccontando alcune cose e mi ha detto: “ma lo sai che stavo pensando che il prete lo devi fare tu?” A quel punto mi sono trovato catapultato da Bari a Cisano Bergamasco, dove in 200 m c’erano tre sedi della lega, e ho cominciato il film in questa chiesa sconsacrata, ed è cominciato il viaggio di questo Don Livio.
Il prete non c’era in quel film. E pensando al prete Alessandro mi diceva delle cose, poi ne dicevo io a lui, ed è nato quel personaggio. Io ho scritto il film non pensando mai che l’avrei fatto io. Stavamo già lavorando al film successivo. Eravamo a un bar, gli stavo raccontando alcune cose e mi ha detto: “ma lo sai che stavo pensando che il prete lo devi fare tu?” A quel punto mi sono trovato catapultato da Bari a Cisano Bergamasco, dove in 200 m c’erano tre sedi della lega, e ho cominciato il film in questa chiesa sconsacrata, ed è cominciato il viaggio di questo Don Livio.