Giovanissima, Jyn ha visto la mamma morire ammazzata da Krennic, spietato emissario dell’Impero, e il padre, lo scienziato Galen, deportato per obbligarlo alla costruzione di una misteriosa arma di distruzione di massa. La ritroviamo 15 anni dopo, una giovane donna vissuta ai margini, indurita da una vita di sofferenze e privazioni, convinta del tradimento del padre un tempo amatissimo. Qualcuno però la cerca, perché figlia di quello stesso uomo che ha architettato un piano per distruggere quello che è stato costretto a costruire. Lei sola sarà in grado di recuperare segreti importanti per salvare l’Universo dall’avidità della colonizzazione imperiale. Ad aiutarla si formerà un gruppo di ribelli di basso livello, perché la ribellione più istituzionalizzata, l’Alleanza, la lascia da sola. Con lei resta solo un gruppo di “agenti” esterni, gente che ha speso la vita a lottare contro l’Impero, sporcandosi le mani nell’obbedienza cieca agli ordini, e comprende bene che altrimenti sarebbe stato tutto invano (uno dei momenti con la scrittura di maggiore finezza). Ma le forze dell’Impero sono superiori e a poco vale il sacrificio di tante vite. Un messaggio nella bottiglia però riesce a partire e la scheda con i dati per la distruzione della mostruosa Morte Nera arriverà nelle mani di chi sappiamo. Gareth Edwards, salutato subito come una rivelazione con il suo Monsters, responsabile poi di un Godzilla che ha parecchio diviso, riesce nell’impresa di rendere felici gli insoddisfatti del Risveglio della Forza, più libero forse da legami di continuità rispetto a JJ Abrams. Perché Rogue One è un film “stand alone”, che deve raccordarsi con il primo film del ’77, senza bisogno di aggiornarsi ai gusti di oggi, senza essere obbligato a lasciare fili sparsi ma dovendoli tutti riannodare alla costruzione narrativa seguente. Blasonati gli sceneggiatori, che sono (e vanno citati) Chris Weitz (regista e sceneggiatore di About a Boy e La bussola d’oro, regista dell’ottimo Per una vita migliore e sceneggiatore della Cenerentola di Branagh) e Tony Gilroy (sceneggiatore della saga Bourne oltre che regista di The Bourne Legacy, scrittore e regista di Michael Collins e Duplicity). Convince poco l’imbronciata eroina Felicity Jones, che non lascia trasparire molti sentimenti dalla fissità del suo sguardo e dal suo broncio perenne. Meglio Diego Luna, che pure è una scelta di cast abbastanza misteriosa ma collegata con la decisione di mettere insieme un gruppetto di outsiders in ogni senso, e che spiega pure l’azzeccata scelta dell’eroico non-eroe di Riz Ahmed. Mads Mikkelsen è il padre che si immola; Ben Mendelsohn (penalizzato dal doppiaggio) fa come d’uso la carogna odiosa; Forest Whitaker è il ribelle più ribelle, personaggio che proviene dall’animazione di Clone Wars; Donnie Yen è un quasi-jedi cieco che nomina una misteriosa Forza, formando con il massiccio guerriero Wen Jiang una bella coppia; dal guscio dell’androide K-2SO, cui sono affidate le rare parentesi di alleggerimento, parla Alan Tudik; ricompare, strappato digitalmente all’al di là, Peter Cushing come Governatore Tarkin e nel finale torna per un attimo nel suo giovanile fulgore (sempre digitale) pure Lei, Leia. E infine Lui, Darth Vader (dalla cui armatura parla sempre James Earl Jones, anche qui peccato per il doppiaggio), che si intravede ridotto tragicamente a un tronco umano e poi compare in tutto il suo nero splendore, sulle note del suo tema da brivido (qui citato integralmente da Michael Giacchino, che invece accenna/distorce tutti gli altri). E si ri-galvanizza di colpo una platea che non aspettava altro che ritrovare i vecchi personaggi, le città suq, i bar malfamati, le creature grottesche, le armi di distruzione, le astronavi e gli aerei, insomma il look complessivo degli anni ’70, quello del primo, mitico, indimenticabile film. Che qui per fortuna tornano a metà abbondante di film, dopo una prima parte obbligatoriamente preparatoria, ma prolissa, che avrebbe potuto essere sfrondata e alleggerita (il film dura 133 minuti, troppi, togliendo pure gli infiniti titoli di coda, dei quali è inutile attendere la fine, perché non c’è nessuna scena extra). Ma quando finalmente apre all’azione, al dramma, trova la sua ragione d’essere. Grandi scene d’azione benissimo girate, la distruzione della città dall’aspetto fantsy/medio-orientale, che oggi non può non ricordare la Siria, la sbarco sulle spiagge stile marines in Normandia e la grandiosa battaglia fra caccia e corazzate del finale, dove si fa letteralmente a sportellate, compensano una certa scarsità di pathos, pur nella tragedia incombente (perché sappiamo come andrà a finire se ricordiamo come è la situazione all’inizio del primo/quarto episodio). Il tragico Bunch of Friends (il Mucchio Selvaggio?), i “furfanti” del titolo, non tanto ben definiti singolarmente ma che funzionano nel loro insieme, si immola in nome della pura speranza, come in ogni vera rivoluzione che si rispetti, mentre le alte gerarchie dell’Alleanza stanno lì a discutere e perdere tempo prezioso (come sempre). E finalmente ci si emoziona. Rogue One è il primo passo in un progetto “alla Marvel”, un universo da non abbandonare per molto, molto tempo (da saccheggiare si potrebbe anche dire), andando a pescare personaggi minori, creando crossover inediti, procedendo a ritroso nel passato mentre si va avanti nel futuro, ad anni alterni. Vedremo se e quanto successo arriderà all’operazione, determinando le future realizzazioni. L’importante è che un marchio come Star Wars non si spenga stancamente poco alla volta, rischio qui evitato. Sarebbe un oltraggio a una storia, che per certi ha costituito quasi un monito per la vita. Rogue One è un duro film di guerra più che di fantasy/fantascienza, di eroi disperati come in tanti film bellici di quegli anni lontani, in cui i buoni soccombevano contro le armi superiori dei Nazisti, ammazzati sulle spiagge del Pacifico dai Giapponesi (ma noi sapevamo da chi poi la Grande Guerra sarebbe stata vinta) e ci fa comprendere ancora meglio l’enormità del Male contro cui dovranno lottare Luke, Leia, Han Solo, Obi-Wan e compagni. Ma c’è la Speranza. Ci sarà la Forza. Arrendersi mai.