Cacciato dall’appartamento di un palazzo fatiscente dagli operai della ristrutturazione, si ritrova per strada, perde poco alla volta le cose che possiede, finisce nei dormitori. Ma di giorno vaga incessantemente, perché questo è il problema principale degli homeless, come riempire le lunghe ore di interminabili giornate (senza considerare che a NY l’inverno non è certo mite), pochi gli atti di insofferenza nei suoi confronti, al più solo totale indifferenza e, da parte delle autorità, ovattata ma ferrea applicazione delle regole. Il film, scritto e diretto da Oren Moverman (Oltre le regole, Rampart) non spiega, non giustifica, non induce a compassione. Semplicemente illustra il disagio di vivere, di trascinarsi in giro per una vasta metropoli non avendo un posto dove stare, dove fermarsi (perché appena si staziona troppo a lungo si viene gentilmente invitati a spostarsi). Ogni tanti si raggranellano i soldi per un giornaliero in metropolitana e così si sta in giro tutto il giorno, a dormicchiare seduti, al caldo. Certo l’assistenza pubblica (che tanto costa ai contribuenti) funziona e procura pasti gratis e ci sono anche i ricoveri ben organizzati ma gestiti militarmente e accedervi è burocraticamente complesso, per uno come George. E poi non sono posti tranquilli, affollati di fuori di testa potenzialmente pericolosi. Cosa ha provocato la caduta di George, cosa è mancato per frenarla? Lui parla di donne che lo hanno aiutato ma alla fine scaricato, incrocia qualche altro disgraziato logorroico e sempre tace mentre gli altri non smettono di parlare, spia da lontano una giovane cameriera (a più di metà film sapremo perché, ed è la parte più convenzionale della storia). Gere porta nel personaggio quella sua insita coolness, che in questo caso lo rende ancora più credibile, civile signore decaduto non si sa come o perché (solo una lunga cicatrice chirurgica sul lato della testa e il racconto di una crisi esistenziale finita in alcolismo), che si concede plausibilmente un passaggio su un vecchio piano scordato. La bella fotografia di Bobby Bukowski riprende la città in modo che certi fotogrammi sembrano quadri di Hopper, usando molte inquadrature attraverso vetrine e finestre o riflesse su altre superfici, ad accentuare il senso di separazione, la distanza del protagonista nonostante la sua apparente visibilità. La colonna sonora è fatta di rumori ambientali, di brandelli di canzoni di sottofondo, un magma indistinto. Moverman immerge gli spostamenti del protagonista in un mare di chiacchiere e conversazioni al cellulare di un’umanità che avvolge il protagonista senza vederlo, senza guardarlo, senza curarsene. Il regista è riuscito a rendere il suo lavoro (all’apparenza) invisibile, inquadrando quasi di nascosto il suo personaggio, così come davvero di nascosto ha ripreso molti passanti, ignari dell’identità del “barbone” che si trovavano davanti. Si potrebbe imputare al film una certa, non si sa fino a che punto voluta, mancanza di coinvolgimento emotivo nella sciagurata china del personaggio, che del resto nulla spiega perché neanche bene ricorda, e in fondo non cerca, perché sa di non essere degno (ma per noi è questo il bello del film). Il limite forse sta nell’essere una storia così prosciugata da sembrare un documentario che va a cozzare contro la volontà di inserire una traccia narrativa anche se labile e che giustifica la presenza di un nome di richiamo come Richard Gere (che anche co-produce). Il film è stato girato in sinergia con diverse associazioni di homeless della città. Senza pietismi, merita una visione.