Moonrise Kingdom: Recensione
Di Giuliana Molteni | 06 Dicembre 2012Fuga verso la realtà
Ci sono autori che fanno sempre lo stesso film, per la gioia di chi li apprezza, nell'antipatia dei detrattori che dopo il primo film già si sono stufati. Più obiettivamente si può dire che certi personaggi fanno i loro film intorno alle medesime tematiche, qualche volta riusciti, qualche volta un po' meno. Uno di loro è Wes Anderson, responsabile di deliziose commedie agrodolci come Rushmore, I Tenenbaum, Le avventure acquatiche di Steve Zissou, ma anche prodotti più di maniera come Il treno per Darjeeling e Fantastic Fox (e mai giudizio fu più soggettivo). In Moonrise Kingdom, con tutti i suoi consueti vezzi (amati, appunto, o detestati) scrive (insieme a Roman Coppola) e dirige una storiellina infarcita dei suoi soliti personaggi eccentrici, spesso sentimentalmente afasici, capaci di comunicare solo trasversalmente, gentilmente disadattati, più folli gli adulti dei piccini, che ancora (forse) faranno in tempo a cambiare.
Nel cast manca solo Paul Dano, insomma... Siamo negli anni '60, in un'isola immaginaria del New England, in un lindo paesino che sembra uscito da un libro di favole. Una ragazzina troppo sensibile e un po' dark e un tenero bimbetto occhialuto perennemente in divisa da boy scout e berrettone alla Davy Crockett, si innamorano e decidono di fuggire insieme. L'evento scompiglia le vite di molti adulti: i genitori adottivi di lui, il padre e la madre di lei (Bill Murray e Frances McDormand), il capo scout (Edward Norton) e lo sceriffo del paesino (Bruce Willis), ma anche le meccaniche con i (finora) antipatici compagni di scuola. Si rimettono così in discussione equilibri da sempre instabili, senza avere ben chiaro però in quale, nuova direzione andare. Giovanissimi puri e folli, adulti senza più purezza e per questo ancora più folli. E infelici. Ma sempre gentilmente. I personaggi adulti, persi nel dramma del fallimento delle loro vite, sono descritti in un modo che li fa risultare paradossali, grotteschi, comici. In stile Nouvelle Vogue, squisitamente, ingenuamente "fou" è l'amore che travolge i due dodicenni, un'attrazione su base intellettuale, mentre si incantano nell'ascolto di un disco che spiega una composizione sinfonica, illustrandone le parti, le fughe e le variazioni. Così anche il film sarà una variazione sul tema, sempre presente in Anderson, della Famiglia (non mancano i Boy Scout a rappresentare l'ordine costituito), dove tutto si frantuma per poi ricomporsi. Importante tutta la colonna sonora, con pezzi d'epoca ben scelti (la canzone che i ragazzini ballano in riva al mare è Le temps de l'amour di Françoise Hardy), mentre la traccia originale è di Alexandre Desplat, alla cui musica alla fine dei titoli di coda si applica lo stesso metodo "destrutturante" usato nella prima scena del film nella suite didattica "Young Person's Guide to the Orchestra" di Benjamin Britten in cui si presentavano i diversi strumenti che compongono l'orchestra basandosi su un tema di Bernstein. Anderson non fa fatica a radunare cast variegati e prestigiosi, qui oltre ai due bravi ragazzini, Kara Hayward e Jared Gilman, c'è un cast di tutto rispetto, oltre ai già citati compaiono anche Tilda Swinton, Harvey Keitel, Jason Schwartzman, Bob Balaban, tutti perfetti nei loro ruoli, con l'abituale recitazione sottotono, come voluto dal regista, spenti come spente sono le loro vite. Per parlare del film ci sono degli aggettivi indispensabili: surreale, lunare, poetico, spiritoso, colto, metaforico ecc... Come sempre con questo regista è estrema la cura data alla rappresentazione del quadro nel quale si svolgono le vicende, in un mix calligrafico di realtà e trucco, di animazioni e live action, con quell'aria all'antica che sembra fare a meno della tecnologia. Anderson è un autore al quale sono debitori tanti registi indie, influenzati dalla sua poetica, dal suo stile. Andando avanti per questa strada però non vediamo molte possibilità di sviluppo e temiamo un avvitamento sterile e manieristico sempre sugli stessi temi.
Giudizio
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