Go with Me: Recensione

Di   |   14 Ottobre 2016
Go with Me: Recensione

 Quando la misura è colma

Quando un paese è tanto grande, la sua vastità contribuisce a creare zone oscure, dove il braccio della legge, dell’autorità centrale, stenta ad arrivare e chi le amministra è troppo isolato per poter imporre regole di vita comuni. Nell’immenso Oregon (255 mila chilometri quadrati per 3milioni di abitanti, in Italia siamo in 60 milioni su poco più), ci sono sterminate distese di foreste, così lontane e folte da aver ostacolato il lavoro predatorio degli esseri umani.


In una delle minuscole cittadine che punteggiano l’area, agisce indisturbato un ex poliziotto degenerato, Blackway (il titolo originale del film, mentre Go with Me viene dal libro di Castle Freeman Jr da cui il film è tratto), un individuo che ha creato un suo feroce ordine parallelo e spadroneggia a suo piacimento (affidato al sempre inquietante Ray Liotta). La gente si allea o subisce, lo sceriffo guarda dall’altra parte. La miseria incombe, si vive come in un avamposto del vecchio west, assediato da nemici diversi ma sempre letali. Una ragazza (Stiles), dopo molte provocazioni, decide di opporsi a Blackway e, nella ricerca di un alleato, incappa in Lester (Hopkins), un vecchio uomo solo che si trascina dietro un ragazzone un po’ lento di comprendonio ma volonteroso e buono. Sono tre outsiders, tutti hanno un vissuto traumatico, vite di frontiera dove la frontiera non c’è più da tanto, e tutti si alzano metaforicamente in piedi per fronteggiare il Male, stanchi di piegarsi, di fuggire. Anthony Hopkins meno gigione del solito, ritrova la sua sensibilità in questo ruolo dai pochi tocchi, perché tutti i personaggi sono appena accennati. Conta l’atmosfera complessiva, il peso di un ambiente degradato che ricorda True Detective (prima stagione) o altri film come Out of the Furnace con Christian Bale o A Single Shot con Sam Rockwell. Julia Stiles è la giusta ragazza, una bellezza ormai un po’ sfiorita, ma sempre volitiva. Il tenero ragazzone è affidato a uno del cast di Viking, Alexander Ludwig, qui dimesso e sofferente. Nel bizzarro “consiglio di guerra” dei vecchissimi ex boscaioli del paese, si riconosce il mitico Hal Holbrook, classe 1925. Dirige Daniel Alfredson, alla sua prima esperienza american, dopo due film e una serie tratti dai romanzi Millennium, e Il caso Freddy Heineken, anche quello con Hopkins. Alfredson ambienta la cupa storia in un mondo nevoso e buio, una landa desolata che trasmette la sua indifferenza spietata nei cuori di chi la abita. Slegato nello svolgimento quasi casuale della vicenda, non sostenuto da un’adeguata costruzione dei personaggi e soprattutto dei loro rapporti, che giustifichi per davvero le loro azioni, ugualmente il film non fallisce del tutto il bersaglio. La storia, grazie anche al buon cast, riesce a comunicare l’abbandono dei personaggi, finiti a sopravvivere a prezzo di durissime fatiche, abbandonati da istituzioni e legge, troppo contigui ad una natura che può riprendersi in un attimo quanto gli uomini le hanno sottratto, facendo pagare come contrappasso la perdita della propria umanità.

 

 

Giudizio

  • un thriller/western
  • 6/10

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