Il cinema è sempre stata un’arte in cui il non visto è altrettanto importante del visto. I grandi film sono stati quelli che ci hanno colpito con immagini indelebili e scene madri, ma anche quelli che ci hanno fatto immaginare, pensare a quello che non abbiamo visto. Terminator aveva in sé questi due aspetti: un’icona come il T-800 di Arnold Schwarzenegger è impresso ormai nell’immaginario collettivo. E il futuro in cui l’uomo è dominato dalle macchine, nel lontano 1984, molto prima di Matrix (e in piena paura atomica) è stata un’idea che ha gettato una luce inquietante sul nuovo millennio.
È chiaro che la partita di Terminator Salvation, quarto episodio della serie (e probabile inizio di una nuova trilogia) si giocava tutta su questo campo: quello dell’immaginato e dello svelato. Siamo infatti nel 2018, quattordici anni dopo l’olocausto nucleare di Terminator 3 – Le macchine ribelli. John Connor (un Christian Bale sempre convincente) è ormai un uomo adulto e si avvia a diventare il leader della Resistenza, come abbiamo imparato nel primo Terminator. Ascoltando i diari di sua madre Sarah, viene a sapere che dovrà inviare nel passato Kyle Reese, che ora è un ragazzino, ma poi diventerà suo padre. La ricerca di Kyle e l’organizzarsi della Resistenza sono al cuore della trama di questo film.
La partita è vinta. McG, dopo il kitsch hi-tech di Charlie’s Angels, da cultore della saga di Terminator, riesce a creare un futuro apocalittico e post-nucleare che non sfigura affatto di fronte a quello che ci eravamo figurati nella nostra mente. Lo ottiene con un lavoro particolare sulla pellicola, lasciata al sole perché perdesse alcune delle sue caratteristiche. E con un lavoro digitale sulle immagini. Curiosamente, però, Terminator Salvation non è quel tripudio di computer grafica che ci si aspetterebbe (pensate al Terminator 2 di Cameron, all’avanguardia degli effetti speciali con il suo morphing), ma è ricco di modellini e animatronic, stunt ed esplosioni da vecchia scuola. Il film è riuscito anche grazie a uno script che collega bene il nuovo episodio ai primi (vedi la citazione di You Could Be Mine dei Guns N’Roses da Terminator 2, o Kyle Reese che dice, come nel primo film, “vieni con me se vuoi vivere”).
Se quello che colpisce maggiormente l’occhio sono le scene in cui gli umani vengono rinchiusi in gabbie come greggi di bestie da soma (ma anche nuovi terminator a forma di moto e serpenti d’acqua), quello che colpisce la nostra mente è il personaggio di Marcus, che all’inizio del film abbiamo visto vicino alla condanna a morte prima della fine del mondo. Guardatelo bene, perché delimita un cambio di prospettiva nella saga: il confine tra uomo e robot ora non è più netto come prima, e non è netta nemmeno la percezione del proprio status. Insomma, la nuova saga non è manichea come la precedente, e pone interrogativi che la avvicinano a Blade Runner e A.I. – Intelligenza Artificiale. Come a dire che le macchine non sono solo contro di noi, ma anche dentro di noi. Ed è sempre una macchina – il computer – a riportare in scena Arnold Schwarzenegger, il cui volto renderizzato è stato incollato sul corpo di un body builder per un cameo tutto da gustare. Non poteva mancare per tenere a battesimo il nuovo – ottimo – inizio di una saga cult. Hasta la vista, baby!
Sfida vinta nel raffigurare un futuro altrettanto inquietante di quello che i vecchi film ci facevano immaginare: sarà l’inizio di una nuova saga
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