La Grande Bellezza: Recensione

Di   |   22 Maggio 2013
La Grande Bellezza: Recensione

Il nostro viaggio è immaginato
Jep Gambardella è un ricco sfaccendato, emigrato in gioventù a Roma da un imprecisato Sud. Aveva ambizioni da scrittore ma un solo libro ha in effetti scritto, sulla cui gloria ancora campa, in quanto a soldi e reputazione. Con la scusa di essere un cronista mondano, conduce una vita da festaiolo impenitente, ogni notte un party diverso, fra faccendieri, bottegai, pseudo-intellettuali e discutibili artisti, tutti aspiranti qualcos'altro. Permeato da uno spleen degno di un Petronio alla corte di Nerone, si aggira nella sua casa con terrazza da colpo al cuore affacciata sul Colosseo, ormai costretto a fare mostra di divertirsi di qualcosa che col tempo gli è venuto a noia, mentre dissipa un talento che chissà se c'è mai stato.


Lo incontriamo e lo frequentiamo solo per una breve tranche de vie, dai tramonti alle albe, con gli oziosi risvegli, le feste scatenate, gli incontri a volte surreali, le fatue chiacchiere in terrazza (che non è quella di Scola), i flirt irrilevanti, le passeggiate solitarie. Lo spaccato della vita di un uomo che voleva raccontare "la grande bellezza" e si è ridotto a vivere nell'esatto opposto. Lentamente la "resurrezione" di Jep prende forma. Ma chissà se mai si concretizzerà. Parafrasando la famosa frase di Nietzsche, se ci si abitua a guardare troppo a lungo l'abisso, non si riesce a guardare nient'altro. Più che la descrizione di un personaggio non nuovo, conta però potentemente la spettacolare descrizione dell'ambiente nel quale Jep si muove. Sul martello della disco più tamarra si agita oscenamente il solito generone da festa sfrenata, le facce sudate storpiate dal botulino, le bocche aperte in smorfie estatiche, la sintesi visiva della volgarità più decadente. Risplende la meraviglia della cornice che circonda le azioni dei protagonisti, incapaci di cogliere il tutto, persi nel loro particolare, usando tutta la Grande Bellezza, parchi, palazzi, musei, fontane e fontanili, solo come palcoscenico per le loro miserabili trame. Non è Fellini, anche se i rimandi sono tanti, ci sono aristocratici anche se a noleggio, corrono lieti suorine e bimbi, si incrociano Principesse e cardinali, non c'è però Marcellino disincantato ma ancora pulito a vagare per vicoli e palazzi, solo un fugace passaggio di Fanny Ardant sembra ricordare la grazia di un tempo (ma ci sarà mai stato un momento di grazia, se già negli anni '60 il quadro era così goyesco....). Ma allora forse il futuro era una promessa e non una minaccia ("la nostalgia è quello che resta a chi è diffidente del futuro"). Sorrentino indubbiamente sa raccontare, sa descrivere, sa scegliere mirabilmente le facce e i posti da riprendere: la meraviglia di certi luoghi di sublime bellezza come i giardini dei Cavalieri di Malta, le vestigia romane, case e monumenti, il barocco e il rinascimentale e la bruttezza grottesca dell'ambiente mondano, coadiuvato dalla splendida fotografia di Luca Bigazzi. Anche se la trama procede a quadri, a blocchi descrittivi, alcuni più riusciti altri meno, il regista riesce a dipingere un quadro memorabile pur con i suoi vezzi stilistici, con qualche discutibile simbolismo "alla Malick", con una giraffa e dei fenicotteri di troppo, una quasi obsoleta polemica anti-clericale, qualche scontata "pillola di saggezza" enunciata qua e là da Jep. E la Concordia rovesciata sul fianco come un'enorme balena spiaggiata è facile metafora. Anche se il film è troppo lungo e con qualche sottofinale di troppo, la sua capacità di descrivere "mostri" nell'aspetto esteriore e nell'anima è indiscutibile, l'uso della colonna sonora è eccelso, dalle musiche sacre al battito da discoteca, la canzonetta pop melodica e la sinfonica. Toni Servillo è sempre il grande istrione che conosciamo, il perfetto gagà in cerca di un'anima. Intorno a lui un cast molto interessate e vario: una vulnerabile Sabrina Ferilli dalla bellezza orami deformata; Carlo Verdone con tutta la sua umanità è l'unico amico di Jep, un commediografo fallito, pateticamente in cerca di riconoscimento; Galatea Ranzi fa la radical chic da salotto buono;Iaia Forte e il marito Carlo Buccirosso interpretano la coppia di piccolo borghesi arrivisti arrivati; Giovanna Vignola è la vera nana in mezzo alle solite "ballerine"; Isabella Ferrari (bellissima) è la signora chic milanese in visita turistica, quella che di mestiere "è ricca"; Luca Marinelli, un giovane erede di buona famiglia con il cervello bruciato, è il figlio di Pamela Villoresi, madre invano apprensiva; compaiono brevemente Giorgio Pasotti e Serena Grandi, che inevitabilmente ricorda una Saraghina meno primitiva. E poi il chirurgo plastico Massimo Popolizio, l'arcivescovo gourmet Roberto Herlitzka.Fanny Ardant e Antonello Venditti compaiono in un cameo. Sorrentino non vuole scandalizzare, indignare, non ci sono politici o mafiosi da additare al ludibrio e pensiamo che le feste stile Polverini/Fiorito fossero (siano e saranno) anche peggio. L'autore guarda, da non-romano, e annota: "Roma ti fa perdere tempo", come sabbie mobili che ti ingoiano. La Grande Bellezza è quella cosa di cui non siamo più capaci, Roma lo ricorda in modo particolare, città che annichilisce attraverso la stratificazione di meraviglie frutto non solo della Natura ma di altri uomini, capaci di ben altre gesta di quelle che descrive Paolo Sorrentino. Sempre l'umanità è stata meschina, corrotta, miserabile, superficiale, avida, tesa ad apparire e non a essere. Ma nel mentre produceva opere sublimi, di bellezza immortale. Oggi sembra capace solo di condurre parassitarie esistenze di totale nullità che la cornice di secolare splendore mette ancor più in risalto. Il senso della vanità di tutto incombe, intorno a noi mura, statue, palazzi, monumenti secolari lievemente si sfarinano, accentuando la caducità irrimediabile del nostro passaggio terrestre. La Grande Bellezza è tanta che, se osservata degnamente, può far fermare il cuore. La Grande Bellezza sopravvivrà agli umani. Un giorno non resterà che pietra su pietra e di noi nessuna traccia. Finalmente.

Giudizio

  • Fuggire finché si è in tempo
  • 7/10