Noi siamo infinito: Recensione

Di   |   14 Febbraio 2013
Noi siamo infinito: Recensione

Per non essere una storia triste
Quanti film ci hanno raccontato dell'età bellissima ma terribile che può essere l'adolescenza, declinando il tema in infinite varianti. Pochi l'hanno saputo fare bene come il cinema indipendente americano. Arriva sui nostri schermi un'ulteriore conferma, Noi siamo infinito, scritto e diretto dall'autore del libro The Perks of Being a Wallflower, titolo originale del film (i vantaggi di fare da tappezzeria), uno dei migliori del suo genere. Siamo nei sobborghi di Pittsburgh nei primi anni '90. Il sedicenne Charlie (Logan Lerman) già segnato dalla scomparsa di un'amatissima zia, ferito dal suicidio del migliore amico, affronta con prevedibile ansia il primo giorno di liceo. Mentre cerca di farsi invisibile, individua due che non fanno parte del solito giro vincente dei quarterback e dei loro amichetti/amichette. Sono due carismatici drop-out, Sam (Emma Watson) e Patrick (Ezra Miller), un'affiatata coppia di fratellastri entrambi più grandi di lui. Entrato nel loro giro, Charlie inizia la sua educazione sentimentale. Sarà una strada lunga e tortuosa, dolorosa eppure bellissima.


Quando saremo cresciuti e diventati mamma e papà, racconteremo le nostre vecchie storie. Il film racconta delle cose mentre succedono e non sono ancora diventate "storie". "Noi siamo quello che siamo per un sacco di ragioni, che per la maggior parte ignoreremo". Il film scorre sul filo delle lettere che Charlie scrive a un amico immaginario (forse a se stesso), mentre in un succedersi di eventi si forma la scena complessiva, nella descrizione attenta di tutti i protagonisti, dei loro legami, del vissuto di ciascuno, pochi tocchi per un quadro ricco di dettagli. I temi trattati sono numerosi (perché "noi siamo l'infinito" e dentro di noi ci sono territori sterminati), oltre al naturale disagio esistenziale: bullismo e omofobia, droghe e suicidio, molestie e la semplice becera ignoranza e il disprezzo nei confronti del diverso (migliore). Ma Stephen Chbosky non perde mai di vista il filo della sua narrazione, senza adeguarsi a nessun copione precedentemente scritto, lasciandoci con un'indiscutibile verità: non si deve commettere l'errore di "accettare solo l'amore che crediamo di meritare". Ottimo il cast. Logan Lerman, che ricordiamo nel fantasy Pecy Jackson, interpreta lo smarrito eppure coraggioso Charlie; Emma Watson sta percorrendo la sua strada post-Harry Potter; Ezra Miller giganteggia nel suo Patrick; bella partecipazione anche quella di Paul Rudd, il professore di inglese; Nina Dobrev (star di The Vampire Diaries) è l'attenta sorella. Gli adulti sono tutte facce note: Dylan McDermott, Kate Walsh (Private Practice), Melanie Lynskey (la zia troppo importante), la psicologa Joan Cusack e compare anche Tom Savini, in un ruolo insolito. Se le canzoni che toccano il cuore dei "diversi" sono degli Smiths e la canzone che li esalta è Heroes di Bowie, gli altri pezzi sono di Nick Drake, New Order, Sonic Youth, XTC, Cocteau Twins e ci si scatena sulle note di Come on Eileen dei Dexy's Midnight Runners, mischiati alla bella colonna sonora di Michael Brook. Anche se ci sarà una svolta finale più drammatica, per giustificare il livello elevato del disagio psicologico di Charlie, il film racconta in fondo una storia come tante, il difficile passaggio attraverso l'adolescenza, appesantito dall'inserimento nel liceo, che sembra essere di film in film il posto peggiore della terra. Così si mischieranno in un arduo groviglio la fatica per distinguersi, per uscire dall'anonimato senza perdere se stessi; l'incontro con quelli che saranno gli amici più importanti prima che noi stessi ce ne rendiamo conto; il primo amore senza speranza; il primo bacio e la prima esperienza sessuale; la prima rissa; le corse nelle notti; qualche incidente con droga o alcool; il passaggio all'Università e il distacco dalla famiglia. E la scelta dei libri da leggere per capire meglio come siamo, delle canzoni su cui far scorrere i giorni e le notti (gli adolescenti di Pittsburgh nel 1991 non riconoscono Heroes quando passa alla radio, ma se ne innamorano). E le rappresentazioni del Rocky Horror Picture Show, nella Pittsburgh di quegli anni ancora trasgressivo col suo messaggio "Don't dream it - be it". Intorno gli adulti, l'illuminato professore di letteratura inglese, gentilmente fallito, i genitori presenti con discrezione eppure impotenti, così come i due affettuosi fratelli maggiori, e una dottoressa intelligente e sensibile. Eppure Stephen Chbosky fa così bene il suo lavoro di narratore/regista da toccare la sensibilità dello spettatore capace di ricordare, di ripensare ai disagi, agli imbarazzi, alle ferite, alle illusioni, ma anche a quell'indicibile esaltazione, quella speranza assurda e generica che tutto sia possibile in un domani che si stende illimitato davanti a noi, così tipica di quell'età. Sarà la giovinezza, saranno gli ormoni, guai se non fosse così, saremmo tutti precocemente vecchi, pronti per la sepoltura.

Giudizio

  • sorprendente
  • 8/10