E qui sta il tasto dolente, perché così l’asticella del rischio si alza, come bene ci hanno insegnato tante appassionanti storie di fantascienza del passato, in cui si raccontavano nefaste conseguenze dall’incauto contatto con organismi a noi sconosciuti. In Life (sottotitolo italiano Non oltrepassare il limite, che già prelude troppo) si immagina uno scenario simile: una missione ruota da mesi nello spazio nella sua enorme stazione spaziale, attendendo l’arrivo di una navicella con materiale prelevato da un robot sul suolo marziano, da analizzare lassù nello spazio, per evitare di portare sulla Terra materiale potenzialmente nocivo. Dal rosso pianeta arriva una cellula vitale, un’elegante particella cigliata che mostra segni di vita, cui il ricercatore di bordo si affeziona, dandole pure un nome, Calvin. Il simpatico organismo cresce, in un ammasso di filamenti che cercano interazione con le mani dello scienziato, per poi diventare una specie di piacevole polipetto dai piatti tentacoli traslucidi. Ma se tutto andasse liscio non saremmo qui a parlarne. Le cose infatti iniziano a degenerare, tramutando la serena missione di ricerca in un tragico campo di battaglia. E in ballo finisce per esserci la salvezza del nostro pianeta.Ricorda qualcosa, qualcosa che comincia per A e che faceva urlare? Esattamente. Anche se con qualche variazione sul tema, impossibile non avvertire delle assonanze. Le tipologie dei personaggi sono “da manuale” per questo genere di storie: la virile “Capitana” disposta all’estremo sacrificio per il bene comune (Olga Dihovichnaya); il pilota divenuto padre mentre era in volo, che vorrebbe abbracciare il suo piccino (Hiroyuki Sanada); lo scienziato dedito alla sua ricerca no matter what (Ariyon Bakare); il giovane medico, ex militare da missione in Siria, che ormai preferisce stare in mezzo alle stelle piuttosto che fra i suoi simili (Jack Gyllenhaal); la razionale microbiologa di bordo, addetta anche ai protocolli di sicurezza dell’ambiente (Rebecca Ferguson); il meccanico caciarone ma coraggioso (Ryan Reynolds). La cura nei dettagli (fotografia, scenografia, effetti) da parte del regista Daniel Espinosa (Safe House, Child 44) e l’impegno del cast sono però sprecati, messi al servizio di una trama sfruttata (scritta da Rhett Reese e Paul Wernick, che hanno all’attivo Benvenuti a Zombieland e Deadpool e ci aspettavamo di più), con le solite incongruenze sparse qua e là e la solita deriva nei comportamenti dei personaggi, che da freddamente razionali diventano troppo umanamente e scompostamente emotivi, peggiorando la situazione, con comportamenti che è difficile aspettarsi da gente di quella preparazione, scientifica e militare. Oltretutto un finale alla “anni ‘50” che lo spettatore più cinico prevederà con anticipo, cala a togliere ogni pathos eventuale, reo di suscitare potenziale ilarità, da far dimenticare quel poco di tensione che si era riuscito a ricreare prima, con le convulse fughe fra le sequenze di portelloni dell’immensa astronave e gli attacchi del terribile predatore alieno.