The Zero Theorem: Recensione

Di   |   07 Luglio 2016
The Zero Theorem: Recensione

 

La verità, vi prego, sulla vita

Gli universi di Terry Gilliam sono così caratterizzati visivamente da risultare riconoscibili al primo sguardo, come un musicista che riporta in ogni suo opera temi e note di quelle precedenti. Esce finalmente sugli schermi The Zero Theorem, film presentato a Venezia nel 2013 e rimasto poi senza distribuzione.


Ci pensa adesso Minerva Pictures e non è detto che abbia fatto un buon affare. Ma Gilliam è Gilliam e ha un suo zoccolo duro di estimatori, di curiosi delle sue “intemperanze”, dei suoi punti fissi. In un’ambientazione vagamente futurista/psichedelico/steampunk con qualcosa del varietà televisivo anni ’70, immersa in luci acide e innaturali (inevitabile il rimando a Brazil), in cui ogni inquadratura è affollata di dettagli diversamente bizzarri, facciamo la conoscenza con Qohen Leth (Waltz) “massimo di cervello in un corpo minimalista”. L’uomo è addetto ad astrusi lavori su strambi macchinari per conto di una non meglio identificata Corporation. Nel frattempo aspetta ansiosamente la telefonata che spiegherà finalmente il senso di quella vita che nel frattempo ha rinunciato a vivere. Viene incaricato dal capo supremo (un divertente Matt Damon in versione Lagerfeld, con spettacolari completi che si mimetizzano con la tappezzeria) di lavorare alla creazione dell’equazione che spieghi questo misterioso significato, rendendolo comprensibile, replicabile. Qohen si rinchiude nella sua casa, una pittoresca chiesa in decadenza, situata in un quartiere di un’imprecisata città, una specie di Londra bulgarizzata, una città balcanica degradata mutuata con una Times Square post cataclisma. Si lascia irretire dalla peccaminosa ma dolcissima Bensley (Melanie Thierry), prostituta che scopre poi essere virtuale (ma forse no), si lascia tentare da quei piaceri che consolano l’umanità della mancanza di questa fondamentale riposta, che forse è più vicina di quanto lui riesca a vedere. Anche il giovane hacker Bob sembrerebbe poterlo aiutare ma la risposta richiederà un altro tipo di impegno. A volte basta un piccolo colpo con un piccolo martella dato al punto giusto per far crollare il sistema. Grandi prove di attori, in questo ultimo film di Gilliam, che risente di tutti i suoi vezzi, pur nell’esposizione di un cruccio evidentemente per lui mai risolto.  Dal nulla veniamo e al nulla ritorneremo: non che l’assunto non ci trovi concordi (nulla ha senso, siamo solo una conseguenza passeggera del big bang che fra poco sarà risucchiata nel gigantesco buco nero che si sta formando da qualche parte), noi non “valiamo”, siamo una massa intercambiabile abbindolata giorno dopo giorno. Chi cerca di sottrarsi, di capire, è weird, diventa creep (e nel film aleggia la canzone dei Radiohead in versione smooth). È vero, non è cambiato nulla per noi, dai tempi della bella fantascienza degli anni ‘60/70, dai tempi delle grandi domande e delle sempre impossibili risposte, delle rivoluzioni ideologiche che talvolta si sono ripiegate su se stesse, anzi il progresso tecnologico ha peggiorato la situazione. Ma nemmeno il modo di raccontarlo di Gilliam è cambiato, per la gioia dei suoi aficionados, per l’affetto di molti, per la stanchezza di altri, come se dopo la distopia di Brazil (e dell’Esercito delle 12 scimmie) fosse subentrata la costatazione che tutto è rimasto immobile, quando non peggiorato. E anche la telecamerina che ci spia in fondo ai titoli di coda sa di già visto. Gilliam chiede una risposta sul senso della vita, vi prego, per pietà, ma è sempre quella la domanda, dobbiamo imparare a fare a meno della risposta.

 

Giudizio

  • Soli si muore
  • 5/10