Esasperato dall'atteggiamento del padre, col quale non ha mai avuto un rapporto molto intimo e che con l'età e la demenza è ancora peggiorato, decidendo di assecondarlo affrontando un viaggio attraverso il paese e indietro nel tempo che servirà più a lui che al vecchio padre. Lungo la strada si fermano nella loro cittadina d'origine e così c'è il pretesto per una rimpatriata con fratelli, cugini, compaesani, per scoprire grettezze, invidie, miserie umane. Illusi dalla menzogna di cui Woody è convinto, tutti mostreranno come sotto lo strato sottile dell'ipocrisia affiorino subito l'interesse, la meschinità. Dopo qualche parentesi di surreale umorismo e molta amarezza sulle qualità dell'essere umano ("Ha l'Alzheimer?" "No, crede soltanto nelle cose che la gente gli dice" "Oh, che peccato"), paradossalmente il viaggio metterà le cose al loro posto. Come tanti film ci hanno insegnato, il viaggio serve sempre per chiarire, per conoscere maggiori dettagli su vite mai raccontate, per afasia, per tradizione, per abitudine, per stanchezza, ricordando anche l'elegiaco Straight Story di Lynch, anche nella scelta delle lievi musiche d'accompagnamento scritte da Mark Orton. Gran regista di facce, Payne mette insieme un cast splendido, nel quale giganteggia Bruce Dern (classe 1936) ma si prende il suo spazio la faccia buona di Will Forte, mentre la gran caratterista June Squibb si gode il suo ruolo da coprotagonista. Il fratello anchorman è Bob Odenkiek, ben noto ai seguaci della mitica serie tv Breaking Bad. Stacy Keach tanto per cambiare è un antipatico. Da ricordare la coppia di ottusi fratelli obesi formata da Tim Driscoll e Devin Ratray. Ma è stato fatto uno spettacolare lavoro di selezione anche per l'ultima delle comparse. Ci sono registi che spaziano da un genere all'altro, ma ce ne sono che impongono sulle loro opere come un marchio di fabbrica. Se uno spettatore va a vedere un film di Neri Parenti, sa cosa aspettarsi, tanto per fare un esempio a caso. Alla stessa stregua se si va a vedere un film di Alexander Payne, qui alla prima regia di una sceneggiatura non sua (è del quasi esordiente Bob Nelson), dopo i successi di A proposito di Schmidt, Sideways e Paradiso Amaro, lo spettatore più attento sa che ci si troverà di fronte a una storia intimista, dove piccole pennellate appena suggerite finiscono per delineare il quadro, nel quale spesso il viaggio è un percorso iniziatico e comunque salvifico. La trama si srotola come una delle strade che portano verso un altro nulla, ogni fotogramma potrebbe diventare una foto di quel Midwest dal quale proviene il regista e lungo il quale fa muovere i suoi personaggi, mentre il vuoto scorre inesorabile ai lati, in un territorio piatto e desolato che solo gli uomini di buona volontà sapranno riempire, dandogli un senso. Certo il tutto rischia di diventare di maniera, qui al solito stile minimale del regista si aggiunge anche un bianco e nero che forse vuole sottolineare maggiormente la storia, perché quello è il non-colore delle vite dei suoi protagonisti, che pure hanno radici tanto lontane e sofferte e per quelle vite hanno amato e lottato. Il film serve anche per ricordarci una volta di più che cos'è, quanto estesa è la vera America, un enorme spazio fra le due celeberrime ma sottili coste, una gigantesca provincia arretrata, depressa oggi più che mai, desolata e monotona, dove il tempo sembra essersi fermato, come se niente fosse cambiato dai tempi dell'Ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich, dove le vite si trascinano giorno dopo giorno lungo una main in mezzo al nulla, dopo il lavoro (se c'è) solo un locale per riempirsi di birra e karaoke, solo una vita per rimpiangere quello che non è stato e forse una è anche troppa.