The Post
È la stampa, bellezza
di Giuliana Molteni •
Una delle categorie più massacrate degli ultimi anni è quella dei giornalisti, schiacciati dalla crisi economica che ha fatto crollare le vendite della stampa cartacea, con il drastico abbassamento dei compensi per le nuove leve, costrette per di più a un precariato senza fine. Se, come dicono in molti, la libera stampa può essere strumento di civile crescita e tutela dei diritti collettivi, per le prossime generazioni non esiste speranza di poter eguagliare i traguardi raggiunti dai predecessori. E in fondo di questo racconta, a questo vuole arrivare il nuovo film di Steven Spielberg, The Post. Perché non svela solamente uno dei molti scandali di cui è costellata la vita politica americana, ma nel farlo parla di giornalismo investigativo, di professionisti incoscienti, di editori eroici, di opinione pubblica attenta e di un Potere che prova come sempre a mettersi per traverso, trovando però formidabili ostacoli, così formidabili da metterlo in crisi. Siamo nel 1971, a Washington, e si racconta dei cosiddetti Pentagon Papers, corposissimo studio sul coinvolgimento americano in Vietnam e paesi limitrofi redatto fin dal 1945, passando attraverso ben quattro diversi Presidenti, Harry Truman, Dwight Eisenhower. J. F. Kennedy e Lyndon Johnson, per approdare negli anni di quel presidente Nixon, che con un Watergate “commissionato” solo due anni dopo, dimostrerà di non avere davvero capito niente E il suo bando del Washington Post dalla Casa Bianca non può non far pensare ai bandi di Trump nei confronti di CNN e New York Times. (Per completare il quadro storico, ai più giovani consigliamo The Pentagon Papers del 2003 con Spader e Giamatti, e il documentario The Most Dangerous Man in America del 2009, oltre a Tutti gli uomini del Presidente, del 1976, con Redford e Hoffman, e Mark Felt, con Neeson, sul Watergate). Dalle migliaia di documenti fatti raccogliere dall’allora Segretario della Difesa Robert McNamara, pare per fornirli a Robert Kennedy, le motivazioni per restare nell’area si riassumevano nel quasi umoristico risultato di un sondaggio: negli States, il 10% della popolazione pensava di essere lì per aiutare i sud-vietnamiti; il 20% per tenere lontani i comunisti; il 70% per evitare l’umiliazione di una sconfitta americana. Grazie alla crisi di coscienza del solito piccolo uomo, la cosa viene portata all’attenzione pubblica dalla stampa, prima il New York Times e poi, nonostante la diffida di un tribunale, anche dal Washington Post, giornale che allora sgomitava per farsi uno spazio degno delle sue ambizioni. Che erano soprattutto quelle del mitico capo redattore Ben Bradlee, che sarà poi anche uno dei protagonisti del successivo Watergate. Oggi non può non colpire l’enormità della massa dei documenti che viene trafugata. Prima di Assange, prima di Snowden, i file erano fogli di carta stampati dentro cartelle di carta, scatoloni di cartone pesanti anche da sottrarre, da trasportare, da nascondere. Oggi con un semplice clic si fanno volare ai quattro angoli della terra tutte le notizie che si vuole. Allora toccava caricarsele in aereo, in macchina, sfogliare e mettere in ordine migliaia di fogli. Ma la portata era la stessa. Come altre volte nella storia americana, non contaerà tanto il contenuto della “spiata”, che però implicava l’invio di migliaia di soldati a fondo perso, che andavano a rischiare mutilazioni e morte per l’onore di una patria disonorata da chi la governava, con i politici ben consci dell’inutilità di tanto sacrificio (oltre al colossale dispendio di denaro pubblico). A carico del Potere sarà ascritta la negazione (sbugiardata) e l’accanimento contro i giornali che avevano osato diffondere il dossier (sconfitto in tribunale). Come dicevamo però, The Post è, come tanti altri film diretti da Steven Spielberg, un film di personaggi, anzi proprio di persone. L’editrice Kat Graham unica donna in quegli anni ad occupare una posizione così preminente, cui Meryl Streep attribuisce tutte le incertezze e le ansie, giustificate dall’essere a capo di un così grande organismo ma anche da una sorta di complesso di inferiorità nei confronti dell’universo maschile di soci e collaboratori che cercava di controllarla. Il direttore Ben Bradley, uomo mosso dall’ambizione di portare il suo giornale in una posizione di maggiore visibilità, nella concorrenza eterna con il New York Times, ma anche ferocemente deciso ad affermare quell’incrollabile principio (per la democrazia) che è la libertà di stampa. E nessuno meglio di Tom Hanks poteva calarsi nei suoi panni (in Tutti gli uomini del Presidente il personaggio era stato affidato a Jason Robards). Intorno due schieramenti (affidati a un cast di facce tutte riconoscibili, i soliti caratteristi che fanno la forza del cinema americano), quello dei redattori, schierati a fianco di Ben, e sul fronte opposto quello dei consiglieri d’amministrazione, attenti alla quotazione in borsa, alle ripercussioni politico/giudiziarie. Temi laterali molto attuali quindi, la rivendicazione di autonomia nella gestione del potere da parte di una donna, e la libertà di stampa, oggi che con le fake news (concetto accuratamente martellato nelle menti dei semplici) si cerca di destabilizzare l’informazione minandone la credibilità sempre e comunque. Mentre, come si dice nel film “le notizie sono le bozze su cui si scrive la Storia”. Il film (scritto da Liz Hannah e Josh Singer, uno che si è fatto le ossa con West Wing) passa da un’iniziale lentezza nell’ingranare della vicenda, il suo avvio, i tentennamenti, i tentativi a vuoto, le difficoltà nel reperimento di materiale e autorizzazioni, e poi la convulsa accelerazione perché si deve leggere, riassumere, correggere, stampare, consegnare. Erano tempi in cui premere il pulsante di avviamento delle rotative metteva proprio fisicamente in moto un processo meccanico di metaforica potenza, che faceva vibrare l’intero palazzo, per arrivare a sfornare pacchi e pacchi di giornali di carta e inchiostro, legati con lo spago, caricati e stivati a mano nei furgoni e fatti rotolare davanti alle edicole. Mentre un’opinione pubblica agguerrita usciva di casa per manifestare per strada, imponendo all’attenzione dei governi il proprio dissenso. Non c’erano social da inondare di vane proteste, di insulti inutili, ciascuno a riparo della propria cameretta. Spielberg dirige con quella sua scorrevolezza che fa sembrare tutto facile, elementare e che invece porta infallibilmente là dove vuole portare, senza trucchetti, senza facili effetti, e firma un altro di quei suoi film che intrattengono, informano, fanno riflettere e forse educano. Cosa diavolo chiedere di più andando al cinema?
Etico
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