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Come si diventa criminali
È stata una delle rivelazioni dell’ultimo Festival di Cannes, Un prophète di Jacques Audiard. Tanto da essere stato a lungo in predicato di vincere la Palma d’Oro. Sciovinismo della stampa francese a parte, quello di Audiard è un gran film. È la storia di Malik, diciannovenne che, dopo vari trascorsi in istituti minorili, finisce in una prigione per scontare sei anni di pena. L’impatto è durissimo, ma Malik saprà adattarsi per sopravvivere, arrivando addirittura a fare carriera nel crimine, districandosi tra i peggiori criminali corsi, italiani e nordafricani, e imparando a manipolare i suoi carcerieri. E trovando un proprio posto nel mondo.
È un film che non mancherà di suscitare polemiche, quello di Audiard. Perché mostra l’istituzione carceraria come culla dei futuri criminali. Malik infatti entra come un piccolo ladruncolo, un cucciolo impaurito dalla personalità non ancora formata. E sarà lì dentro che avverrà la sua formazione: diventerà una personalità nel mondo del crimine, troverà la sua strada. Una cattiva strada, certo. Ma la sua. Viene in mente quello che ci raccontava Davide Ferrario in occasione dell’uscita del suo Tutta colpa di Giuda: il carcere non è quello dei film americani, dove le guardie carcerarie sono i bastardi e sono sempre contro i detenuti. Il carcere è un luogo meno manicheo, è un luogo di mediazione dove tutti fanno il possibile per sfangarla. È così anche in questo film – anche se le atmosfere sono lontanissime dal musical di Ferrario – e la mediazione, il saper trattare con le guardie come con i clan di criminali, è un fattore importante.
Quello che piace di Un prophète è che è un film meticcio, contaminato. In primis per le varie etnie che mette in scena, arabi, corsi, italiani, francesi. E in questo senso anche il carcere rispecchia la società multietnica dell’Europa di oggi. Ma è un film meticcio soprattutto perché prende un cinema di genere ben preciso, come il dramma carcerario tipico del cinema americano dagli anni Settanta in poi e lo contamina per trovare una propria via al genere. La regia di Audiard, bravissimo a trattare il noir sin da Sulle mie labbra, ne fa un dramma teso, potente, incalzante, che si segue con passione dall’inizio alla fine (parteggiando per il protagonista). Un esempio su tutti è la straordinaria sequenza in cui Malik deve uccidere per la prima volta, girata con una suspence, una violenza e un realismo che lasciano senza fiato, con una maestria che molti registi horror oggi vorrebbero avere.
Ma Un prophète è un film meticcio perché contamina un film prettamente realistico – girato con uno stile nervoso e una macchina da presa mobilissima - con degli inserti onirici che spiazzano e affascinano allo stesso tempo. Si pensi alle apparizioni della prima vittima di Malik, un fantasma che ricompare, in maniera shakespeariana, a guidarne le mosse, e al sogno in cui Malik prevede l’arrivo dei cervi che si schianteranno sull’automobile di un criminale rivale, che gli valgono l’appellativo di “profeta”. Che va letto in chiave chiaramente ironica, visto il ruolo negativo che viene ad acquisire, e la sua fede musulmana (il profeta per eccellenza è Maometto). La chiusura è sulle note di Mack The Knife (Mackie Messer) di Brecht e Weil, dall’Opera da tre soldi, quasi una glossa al testo filmico che e ci fa capire esattamente di cosa parliamo. Di un saggio sulla nascita del crimine.
un genere tipicamente americano, il dramma carcerario, è riletto con forza e sensibilità europea. Un film meticcio e affascinante
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film: Un Prophète genere: Drama, Crimedata di uscita:TBApaese:Francia, Italiaproduzione:Why Not Productions, Canal+regia:Jacques Audiardsceneggiatura:Thomas Bidegain, Jacques Audiardcast:Tahar Rahim, Niels Arestrup, Adel Bencherif, Hichem Yacoubi, Reda Katebfotografia:Stéphane Fontainecolonna sonora:Alexandre Desplatdurata:150 min brain factor:
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