Un film come Grotesque lo poteva fare solo un giapponese. Detta così, questa affermazione potrebbe suonare qualunquista, approssimata o perfino razzista ma, contestualizzata all’interno di una società come quella nipponica e nella sua produzione cinematografica, acquista un senso tutto particolare. Il “giapponese” in questione è Shiraishi Koji, uno dei più attivi registi nel panorama horror asiatico contemporaneo (Norio: The Curse, Ju-Rei: The Uncanny) e, con Grotesque, mette in scena uno dei film più estremi e disturbanti degli ultimi anni, roba che, a confronto, la serie di Saw diventa uno svago per scolarette.
Come da tradizione del cinema splatter giapponese, la trama è piuttosto scarna: una giovane coppia (Nagasawa Tsugumi e Kawatsure Hiroaki) viene tramortita in una strada isolata e trascinata sopra un furgone; quando si svegliano, i due giovani si ritrovano legati ad un asse, uno di fronte all’altra, in balia di un sadico metodico e psicopatico (Shigeo Ôsako) che comincia a torturarli senza fornire loro nessuna spiegazione, trascinandoli in un abisso di dolore e degradazione fisica ma anche (ed è questo a rendere la loro sofferenza veramente atroce) psicologica. Bandito dalla Commissione di Censura britannica (proprio come ai vecchi tempi dei “Nasty Movies”) che ne ha impedito l’uscita anche in dvd, Grotesque si presenta sul mercato occidentale sotto l’abusata etichetta di Torture Porn (o Porn Horror, che dir si voglia), “contenitore” nel quale, ultimamente, si usa inserire qualsiasi film che si ispiri, anche vagamente, ad Hostel e Saw. Il film di Shiraishi però, non ha nulla a che vedere con l’intelligente metafora politico-sociale ideata da Eli Roth e, soprattutto, con l’innocua e coreografata “torture fun” sulla quale si basa la fortuna dell’Enigmista ma, piuttosto, ci riporta alla mente le oltraggiose nefandezze dei Guinea Pigs e di quel cinema asiatico che ha sempre portato sullo schermo “l’estremo” senza l’ingombrante fardello rappresentato dal “secondo grado di lettura” e dal messaggio sociale. Ciò non vuol dire, però, che l’horror nipponico sia privo di spessore, anzi: film come Dark Water e Ringu (Hideo Nakata) o Pulse e Cure (del Maestro Kiyoshi Kurosawa) raccontano senza mezzi termini una società in cui si comunica sempre meno e dove la solitudine è lo spettro più inquietante.
Grotesque, pur scevro da messaggi espliciti, si collega a questo filone esplicitando però un’altra caratteristica forte dello splatter giapponese: l’esplosione incondizionata della sessualità, spesso segregata nello “scrigno dei peccati” da una società fortemente castrante. E allora ecco che Shiraishi Koji mette in scena una vera e propria “sagra del corpo” (con tanto di fluidi annessi), non risparmandoci dettagliati primi piani di capezzoli tagliati, genitali mutilati, dita segate e bulbi oculari trafitti, il tutto collegato alla rappresentazione di una sessualità (o sarebbe meglio dire “vita affettiva”) distorta che, a tratti, disturba profondamente. Non esiste nessun accenno di umorismo a dare sollievo allo spettatore e nessuna “strizzatina d’occhio” metalinguistica (tranne un momento di puro surrealismo nel finale) a ricordargli che, alla fine, quello che sta guardando “è solo cinema”; l’approccio di Koji è maledettamente serio e il tono generale del film si tinge, da subito, di nero pece. E’ nichilismo distillato quello che ci offre Grotesque, senza nemmeno (ca va sans dire) un happy end con il quale poterci consolare.
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