Arbitro, di solito, è un sostantivo che negli stadi non viene mai pronunciato da solo. Viene seguito da aggettivi irripetibili e minacce spaventose. Il direttore di gara è un uomo solo, più e peggio del portiere, che porta sulle sue spalle il compito di prendere decisioni in un gioco, come il calcio, che ormai è diventato spettacolo e industria. Un lavoro splendido e infame, una passione straordinaria che in questo mondo malato in cui si picchia a sangue un ragazzo in un bar di Roma solo perché tifa Napoli, in cui muoiono ragazzi allo stadio o mentre sono in macchina e dormono in viaggio per una trasferta, loro hanno il compito di far rispettare le regole di gioco. Ci vuole amore, coraggio, lucidità per riuscirci. E ci si chiede chi glielo fa fare.
“Non mi sono mai pentito di questa scelta, anzi. È un lavoro che mi ha dato tantissimo, che mi ha fatto diventare l’uomo che sono adesso”. A parlare è Pierluigi Collina, il migliore arbitro del mondo per almeno un decennio, ora designatore. E se si tiene abbottonato sull’attualità calcistica- come un giudice su un’inchiesta, anzi meglio, visto che siamo in Italia e le procure sono dei colabrodo- sull’aspetto romantico e profondo del suo mestiere, ha parole bellissime. “Confesso che non è stata la finale dei mondiali, né quella di Champions League, il momento migliore della mia carriera. Ma il periodo dai 17 ai 22 anni, quando cresci su un campo di calcio prendendo decisioni importanti in pochi secondi, dirigendo adulti, persone più grandi di te, diventi un’altra persona, maturi prima del tempo. A un età in cui i tuoi coetanei rifuggono responsabilità e decisioni, tu ti eserciti nello scegliere, nel giudicare. Quegli anni mi hanno dato tanto, e non baratterei questa vita con nessun’altra”.
Ci incontriamo a Locarno, al Festival che ha visto proiettare il documentario belga, divertente e istruttivo, Les arbitres (ma è molto più divertente e incisivo, sia pur politicamente scorretto, il titolo inglese: Kill the referee). Ad accompagnare i registi Yves Hinant e Jean Libon, i protagonisti, gli arbitri di Euro 2008, per la prima volta spiati nelle loro stanze, nelle loro confidenze, in partita (registrate le comunicazioni per auricolare), in desideri, paure ed aspirazioni. E così si passa dal bravo ed esilarante ticinese Busacca che a fine partita chiede scusa preventivamente ai giocatori per eventuali errori- “non sono Dio, posso sbagliare”- all’inglese Mark Webb che subisce le minacce di morte polacche (primo ministro compreso!) a causa di un rigore dato nei minuti di recupero. “È stato molto difficile quel periodo, la pressione era tanta, anche se sapevo di essere in buona fede e di aver dato il massimo. Ho avuto la fortuna di sentirmi protetto dall’Uefa- che ha acconsentito al documentario-, di essere tutelato da dirigenti capaci. Certo vedermi scortato da tante persone mi ha fatto uno strano effetto. Sono un sergente di polizia, di solito sono io a scortare”.
Si spera che il film arrivi quanto prima in Italia, per proiezioni ad hoc magari. All’università del calcio di Coverciano per i futuri allenatori troppo vittimisti e i giocatori troppo focosi, negli stadi per i tifosi violenti. Per scoprire che gli arbitri sono uomini, fragili come tutti, a cui si dà una responsabilità enorme (il calcio ormai muove migliaia di miliardi, e loro sono il centro di tutto: eppure sono pochi e mal pagati). “La verità- riprende Collina- è che speriamo che si arrivi, un giorno, a un rapporto più sereno con questo splendido sport. Sembra che nel calcio tutti possano sbagliare, tranne noi. E fa male, non è possibile che qualcuno sia costretto a vivere nove mesi sotto scorta (come è successo a lui- ndr). Non è bello, te l’assicuro. In Italia c’è troppa pressione, prima, durante e dopo la partita”. Presente anche Roberto Rosetti, bello e abbronzatissimo, forse l’erede più talentuoso dell’arbitro di Livorno. “Ho amato molto il film, anche nelle parti in cui ci mette più in difficoltà, ma siamo mostrati nel nostro lato umano, nella difficoltà di chi decide sempre, anche e forse soprattutto, quando non lo fa. E si vede il nostro impegno, i nostri sacrifici, i nostri dubbi”. E neanche lui ha mai voluto mollare. “Mai. Amo il calcio, questo campionato così stressante e difficile, e mettermi sempre alla prova. Certo, vorremmo far capire che noi facciamo di tutto per arrivare alle partite preparati perfettamente: poi una cultura sbagliata fa sì che i nostri errori diventino il pretesto per creare un capro espiatorio”.
Si perde la figura sacrale e antipatica dell’arbitro, quell’uomo in nero spesso imbronciato (ora, invece, ha bellissime mise colorate), deus ex machina odiato da tutti (si pensi alla canzone geniale di Elio e le Storie tese, Ti amo campionato). Il calcio è un gioco splendido, una metafora della vita spesso commovente e potente. E tragedie e stupidità lo stanno distruggendo. Piccole grandi opere come Les Arbitres (che lo compri e lo distribuisca la FIGC, è una lezione di educazione civica) ridanno la gioia infantile che solo questo sport sa dare. “Fare l’arbitro è bellissimo, divertente, emozionante- racconta Webb- è una sensazione indescrivibile e dispiace che molti talenti, giovani che amano questo lavoro, se ne allontanino per paura, per pressioni che diventano presto non solo sportive”. Chi scrive l’arbitro l’ha fatto e in un cassetto ha una calottina, un fischietto e un cartellino giallo e uno rosso. La prima è il ricordo di uno sport simile, ma più nobile e difficile, la pallanuoto, dove l’arbitro spesso sbaglia, non può vedere, ma viene profondamente rispettato, il resto è l’armamentario di un anno a fischiare su campi in terra battuta. E crescere, fuori e dentro. “Allora ci puoi capire- rispondono all’unisono Rosetti e Collina- e scrivine. Spesso anche i giornalisti contribuiscono a fomentare un clima di avversione nei nostri confronti”.
Vero, chi scrive in questi anni- basta vedere l’ignobile gazzarra mediatica degli ultimi mesi in cui si è scavato nel torbido e nel privato- ha molte colpe. E forse, sarebbe ora di fare anche un documentario su noi giornalisti. Dopo gli arbitri, siamo la categoria più odiata. Come loro, forse, abbiamo responsabilità che non sappiamo sempre sostenere. Da loro, sicuramente, dobbiamo imparare il coraggio di essere impopolari, rigorosi, non asserviti al potere.