Interviste

Vin Diesel

Una storia hollywoodiana (parte 2)

[del 25/06/2009] [di GameSushi.it ]
SECONDA PARTE DELL'INTERVISTA A IAN STEVENS


D: Cos’avete imparato dall’esperienza di Butcher Bay? Siete diventati più cinici?

IS: No, non molto. Ogni gioco che fai ha le sue circostanze e difficoltà, cose con cui devi scendere a patti. Quello che abbiamo imparato da Butcher Bay, più di tutto, è che speriamo di avere una migliore esperienza con le prossime edizioni.

L’altra faccia della medaglia, però, è stato capire che siamo in grado di produrre qualcosa di buono. Abbiamo fatto un gioco che è stato valutato con una media di nove su dieci, e se non si riesce a venderlo, probabilmente non è colpa nostra. La reputazione dello studio è salita moltissimo, ed è una buona cosa.

Abbiamo imparato molto, però, e soprattutto su come fare un gioco su licenza. Succede sempre che qualcosa vada male e che possa esser fatto meglio la prossima volta.


D: Che genere di rapporto avete avuto con Vin, quotidianamente?

IS: È interessante, e varia a seconda di cosa sta facendo. Se sta girando un Fast and Furious ha meno tempo, ma per farvi un esempio della partecipazione di Vin… si siede mentre stiamo compilando una build di Assault on Dark Athena, e controlla le inquadrature che abbiamo scelto, alcuni dei momenti che vogliamo sottolineare. Come un regista – e molti dimenticano che Vin ha iniziato come indipendente, e produceva e dirigeva i suoi film. Credo siano state queste sue capacità a far colpo su Spielberg, tanto da affidagli una parte in Salvate il Soldato Ryan.

Non è il decerabrato attore di film d’azione che molti credono egli sia. Con un’occhiata a queste cose, riesce a tirar fuori una trentina di aspetti che potrebbero rendere il gameplay più interessante e immersivo. Metà di queste cose non possiamo farle, ma l’altra metà sì. È un genere di feedback che normalmente non riceveremmo, e possiamo averlo perché lui ha un ruolo nel process.


D: Per quanto se ne dice, a proposito delle differenze tra i media visivi e quelli interattivi, c’è ancora un grande ruolo per lo storytelling…

IS: Quello che abbiamo capito più di ogni altra cosa in questi due anni, ora che siamo più vicini a quelli di Hollywood e abbiamo potuto vedere come lavorano, è quanto poco sappiamo dello storytelling. Rispetto molte persone per il loro impegno, ma ci sono troppe cose che non sappiamo del vocabolario e della profondità dello storytelling dei film.

Facciamo quel che possiamo, ma non siamo film-makers. Queste collaborazioni sono importantissime per noi, per capire come fondere le due cose e inserire un po’ delle loro capacità nei giochi, più che un semplice scambio di idee.


D: L’atteggiamento di Hollywood nei confronti dei videogiochi è cambiato negli ultimi cinque anni?

IS: È certamente cambiato. E credo sia cambiato perché stiamo facendo molti più soldi di loro. Non mancano quelli che guardano ai videogiochi come fossero giocattoli e stronzate insignificanti, ma se guardano ai ricavi e se vogliono sopravvivere, devono cambiare atteggiamento e avvicinarsi.

Nel corso dei prossimi dieci anni accadranno cose molto interessanti tra Hollywood e i videogame. Sono curioso di vedere come succederà, perché in realtà non parliamo lo stesso linguaggio. Spesso quelli di Hollywood fanno fatica a capire le decisioni creative che prendiamo, non capiscono ad esempio perché qualcosa è giudicato meno divertente di qualcos’altro, o perché un personaggio deve essere cambiato per funzionare come personaggio di un videogioco.

Credo che sia difficile da capire, a meno che non si giochi davvero. Non so se ci sia un modo, per così dire, accademico per capire perché Super Mario sia divertente, o cosa ci sia di bello in un giro a World of Warcraft, o ancora perché sia così fico stilettare il prossimo nel collo quando si gioca a Dark Athena. Non so se ci sia un modo per spiegarlo in astratto.
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