USS Indianapolis - Men of Courage
Il crudele destino
di Giuliana Molteni •
Il 26 luglio 1945 il glorioso incrociatore USS Indianapolis, sotto il comando del Comandante Charles Butler McVay III, con una missione segretissima parte da San Francisco per Pearl Harbor, per consegnare a Tinian, nelle isole Marianne, l’involucro e la carica di uranio, parti vitali per l’assemblaggio della bomba atomica che avrebbe colpito Hiroshima. E questa è storia. È anche storia che quattro giorni dopo, lungo il viaggio di ritorno nel mare delle Filippine, sempre senza scorta per motivi di segretezza, sono colpiti dai siluri lanciati da un sottomarino giapponese. La nave affonda, quasi mille militari si ritrovano in acqua, con qualche scialuppa, pochi viveri, qualche giubbotto. E un sacco di squali. I soccorsi non arrivano per una fatale e colpevole catena di errori. Dopo quattro giorni di tragica attesa, mentre sono decimati da mancanza di acqua e cibo e dagli attacchi degli squali, sempre per puro caso un soccorso arriva e inizia il recupero dei sopravvissuti, ridotti ormai a poco più di 300 (i morti in tutto saranno 880). A pagare per tutti sarà McVay, accusato di aver fatto silurare la sua nave, non avendo messo in atto le manovre diversive da manuale. Questo è la storia, che ci era già stata raccontata ne Lo squalo di Spielberg dal personaggio affidato a Robert Shaw.
Peccato, proprio peccato il risultato finale. In tutta la serissima, anzi tragica carne che il film mette al fuoco, soprattutto il discorso sulla Bomba, spiace vedere come la narrazione finisca per altalenare fra Titanic, Lo squalo e altri film su naufragi vari, con improbabili parentesi horror, comportamenti individuali risibili, dialoghi e perfino pose grondanti retorica di genere (la “retorica da scialuppa” la chiameremmo). Non può mancare l’ufficialetto americano arrogante e incapace, il nero con ambizioni letterarie, e pure il giapponese corretto (che dialoga con spirito paterno), ormai inevitabile dopo lo sdoganamento di Clint Eastwood. Spiace proprio. Perché la storia è vera e così è finita con la sua drammatica coda che si è trascinata per vent’anni. E come sempre chi doveva pagare non ha pagato. Colpa della sceneggiatura di Cam Cannon e Richard Ronda Del Castro, colpa di Mario Van Peebles, noto attore oltre che regista. Sicuramente è colpa di Nicolas Cage, il viso ormai perennemente aggrondato in un’espressione di pensosa contrizione, che continua a scegliere i suoi film con ineffabile incoscienza.
una storia sprecata
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