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Detroit

Rage Against the Machine

di
Detroit è il nuovo film di Kathryn Bigelow, a distanza di cinque anni da Zero Dark Thirty. Racconta i fatti avvenuti fra il 23 e il 27 luglio del 1967 a Detroit, Michigan, una vera rivolta a sfondo razziale, ma divenuta poi multirazziale, con violenze e distruzioni inimmaginabili, scatenata da un raid della Polizia nel ghetto, in un club privo di licenza. In totale 43 morti, più di 1000 feriti, 2000 edifici incendiati, un record di distruttività pari solamente a quello della rivolta di Los Angeles nel 1992, per i fatti di Rodney King. A quei tempi la città non era solo la Motown, la città dove tutti i “negri” cantavano nei cori, nei club, sognando di diventare famosi e sottrarsi al ghetto. Detroit, che tanti anni dopo sarebbe stata devastata dalla crisi del 2008, era allora una città con un numero altissimo di abitanti neri, di sottoproletari impiegati (quando andava bene) nelle numerose fabbriche di una città industriale, dove chi provava a integrarsi per campare doveva avere almeno due lavori (così lontano da oggi?). A quei tempi i metodi della Polizia erano di estrema brutalità e le garanzie per gli arrestati inesistenti. Mentre sulle strade avvenivano saccheggi, pestaggi e arresti di massa, nel Motel Algiers un gruppo di amici di colore stava festeggiando un reduce dal Vietnam, in compagnia di disinibite ragazze bianche (cosa che farà infuriare ancora di più i violenti e razzisti poliziotti), facendo incoscientemente baldoria, illudendosi di potersela edonisticamente godere in un momento in cui la città andava a ferro e fuoco. Sette uomini di colore e due ragazze bianche finiscono sequestrati da tre poliziotti, in una notte angosciosamente lunga, che finirà tragicamente per alcuni. Episodio poco noto nell’enorme flusso di eventi esterni, che la regista ha deciso di raccontare, insieme allo sceneggiatore Marc Boal, al suo fianco dai tempi di Hurt Locker, attenendosi strettamente, così affermano, a resoconti e testimonianze, alla trascrizione dei conseguenti interrogatori e delle varie fasi processuali, con il contributo di molte immagini d’archivio (sugli eventi c’è anche un libro scritto da John Hersey, non citato ufficialmente per questioni legali sui diritti). La regista afferma di avere romanzato alcune parti ma sempre sulla base di queste testimonianze precise.
 
Detroit, suddiviso idealmente in tre segmenti, l’esplosione della rivolta, l’episodio al Motel (il più lungo) e la parte giudiziaria conclusiva, è girato con molta camera a mano, a restituire il senso di reale di concitazione del momento, quasi assistessimo a un documentario, mentre sembra di ritrovarsi fra i personaggi, subendo, se non le stesse violenze fisiche, i terribili soprusi psicologici, il senso di impotenza, l’angosciante sottomissione imposta spietatamente, indispensabile alla sopravvivenza. Se Detroit ha un limite, è di sembrare oggi forse troppo, troppa violenza, troppo sadismo, troppa indifferenza fra chi sapeva e girerà le spalle (gli uomini dell’Esercito), ma non per l’impunità sostanziale dei poliziotti, perché quella è ancora storia attuale. Ma sbaglieremmo. Purtroppo. Il film accenna una certa imparzialità mostrando come tutto si nato da un’imprudenza di uno degli ospiti del motel, cui segue però la spropositata, malata reazione dei Poliziotti (quando il Potere perde la testa, certo dell’impunità, si spalancano le porte dell’inferno, a parte gli esiti processuali, aleggia a tratti nella memoria perfino l’ombra di Bolzaneto nell’imposizione di rituali di sottomissione, nella “molestia” pesante nei confronti delle donne, denudate, umiliate, minacciate di violenza sessuale). C’è anche un momento in cui entrano in scena dei poliziotti “buoni” dopo tanti “cattivi”. E sembra incredibile l’indifferenza dell’Esercito nel tirarsi fuori per non avere rogne, nel guardare dall’altra parte. Ma la Bigelow condanna senza esitazioni (e come si potrebbe diversamente) non solo la folle violenza dei poliziotti, ma anche l’operato della giustizia, di parte, in malafede palese, che due anni dopo metterà un pesante coperchio su tutta la tragedia. Grandissima prestazione di tutto il cast, che aumenta la partecipazione e motiva alla storia.
 “Siamo nel 1967!” esclamerà ad un certo punto una delle attonite, sconvolte ragazze bianche. Appunto, verrebbe da dirle, e l’anno prossimo spareranno a Martin Luther King e a Robert Kennedy. E poi ci saranno altre rivolte urbane e ammazzamenti di persone di colore, fino ad arrivare a Rodney King e poi perfino nella New Orleans post-Katrina, per arrivare oggi, con uccisioni del tutto ingiustificate e poi impunite, e altre rivolte e altre distruzioni. E ritrovarci con i campioni di football (sport nazionale come pochi), che si inginocchiano in segno di protesta quando risuonano le note dell’inno nazionale. Ci piacerebbe vedere un film, una distopia, in cui si narri che negli anni ’60 l’integrazione ha funzionato e vedere cosa è successo da allora in poi, come le cose per il Grande Paese sono cambiate. Così, da casalinghe di Voghera, ci sembra che sarebbero cambiate in meglio, meno odio, meno violenza, meno illegalità, meno prigioni, più inclusione magari avrebbe significato la crescita di una classe borghese, che avrebbe portato ricchezza e stabilità. E nessun nero avrebbe deciso che per un bianco non vale nemmeno la pena di cantare. Ma sono solo storie buone per un film, sappiamo, non ci illudiamo.

Cronaca di una sconfitta

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