The Place
Infinite sono le vie del Signore
di Giuliana Molteni •
The Place è uno spazioso bar d’angolo, con un anonimo arredamento moderno, in cui siede ogni giorno allo stesso tavolino un misterioso personaggio. Usa il bar come ufficio e ogni giorno, munito di una corposa agenda che consulta e arricchisce di appunti, sbriga la sua “clientela”, un eterogeneo gruppo di personaggi, uomini e donne, vecchi e giovani, tutti afflitti da problemi di diversa gravità, tutti con un desiderio che non riescono a realizzare, dalla guarigione di un figlio malato al conseguimento di un migliore aspetto fisico. L’Uomo (The Man) promette e sempre mantiene. Il problema è che per arrivare a conseguire i propri desideri i vari questuanti hanno dovuto fare una promessa, a volte orribile, all’Uomo, che mai li forza ad accettare. Lui infatti non è una persona orribile, orribili piuttosto sono gli altri, con la loro capacità estrema di arrivare a qualunque compromesso, di compiere qualunque nefandezza se messi alla prova. Col procedere dell’azione si comincia a capire che le storie si intersecheranno, che i personaggi prima o poi si incroceranno influendo sulle rispettive azioni, senza che per questo si perda di vista il fine ultimo. Perché così è nei piani dell’Uomo, o per una volontà superiore o per puro caso? Non è dato sapere. Vige il libero arbitrio, il problema è stato esposto, la soluzione promessa, pattuito il prezzo da pagare, l’accordo stretto.
La differenza la farà ovviamente nell’atteggiamento che ciascun “questuante” assumerà nei confronti di ciò che è disposto a commettere. L’Uomo sembra interagire realmente solo con una persona, l’unica che non gli chiede nulla, la cameriera del locale che manifesta una cortese anche se pressante curiosità nei suoi confronti (Sabrina Ferilli).
The Place è una storia surreale, un piccolo apologo morale (stiamo ben attenti a ciò che desideriamo e a cosa saremmo disposti a fare in cambio) perché la legge del contrappasso è inesorabile. La regia di Paolo Genovese intreccia bene le varie trame, senza mai risultare meccanica o statica anche se tutta l’azione si concentra fra due personaggi al tavolino di un bar, dei quali uno è il sempre ottimo Valerio Mastandrea, dalla calma olimpica, attore da sempre capace di nobilitare qualunque film tocchi, che non è né Dio né Mefistofele (forse solo uno stanco emissario). Intorno a lui una ronda di noti attori qui maggiormente apprezzabili perché tenuti con fermezza su un registro di sobrietà. Giulia Lazzarini, una di quelle interpreti che hanno fatto la differenza nel teatro e nella televisione italiana di tanti anni fa, una dolce signora perbene; Marco Giallini, sempre ruvido e brutale, poliziotto dai molti segreti; Vittoria Puccini, moglie bella e insicura; Alba Rohrwacher, suora che vuole ritrovare dio a qualunque costo; Rocco Papaleo, che come spesso accade dà il suo meglio in ruoli non comici, che è un meccanico arrapato: Alessandro Borghi, cieco che vorrebbe vedere; Vinicio Marchioni, uomo qualunque devastato da una disgrazia enorme; Silvio Muccino e Silvia D’Amico, coppietta in cerca a tutti i costi di una nuova strada. Si dirà che lodevolmente il film cerca una sua via rischiosa, allontanandosi dai soliti toni delle commedie italiane, come già aveva fatto Genovese, forte del successo del suo Perfetti sconosciuti. L’ambientazione è insolita, l’argomento intrigante. Peccato che non si tratti di una storia scritta da nostrane penne, ma sia una rivisitazione di una serie tv americana di quelle poco viste, The Booth at the End del 2010, che sta andando in onda su Netflix. Avveduto ripescaggio però, che bene si presterebbe anche a una versione teatrale. Che poi i nostri sceneggiatori non siano capaci di inventarsi trame altrettanto originali, quello è un altro discorso. Teniamo però presente che di Perfetti sconosciuti è in produzione un remake americano. Quindi ogni tanto si dà e ogni tanto si prende.
bizzarro
7