Uno dei problemi del nuovo cinema tardoadolescenziale italiano, quello dei piccoli grandi amori che sbocciano nelle notti prima degli esami e portano a vivere tre metri sopra il cielo è proprio una scarsa originalità a livello di trame. Scusate se li chiamo amore, ma molti di questi film soffrono certo della difficoltà di trovare delle varianti allo schema classico del boy-meets-girl, ma anche di una certa inadeguatezza degli sceneggiatori.
Perché allora non rivolgersi a quello che è il miglior sceneggiatore di tutti i tempi? Sì, parliamo del Bardo, William Shakespeare. Chiamato in causa più volte da Hollywood, ora arriva anche nel cinema di casa nostra. Iago, di Volfango De Biasi, rilegge l'Otello scespiriano guardando la vicenda con gli occhi di Iago: nella Venezia di oggi, tra facoltà di architettura e Biennale, il villain più celebre della storia del teatro diventa uno studente innamorato della figlia del rettore (Desdemona), che a sua volta gli preferisce Otello, uno studente figlio di papà e raccomandato. Iago, geloso e frustrato, ordisce una trama per vendicarsi, come ben sappiamo.
Se proprio ci si deve rifare a Shakespeare, tanto vale aspirare al meglio. Che, parlando di cinema, si chiama Baz Luhrmann. E così De Biasi strizza un occhio, anzi due, al suo Romeo + Juliet, uno degli adattamenti più originali dei drammi del Bardo visti finora. Così il Rodrigo en travesti di Iago si specchia direttamente nel Mercuzio drag queen del film di Luhrmann. Senza raggiungere le vette di stordente bellezza dell'artista australiano, nel film si respira un'aria lasciva di sensualità e decadenza (complici anche le belle musiche di Michele Braga). Anche se il film rimane castissimo.
Ci piace, nei film di De Biasi, la scelta di calare nella realtà odierna le storie, con un (lieve) sottotesto sociologico. Se Come tu mi vuoi, ambientato tra i banchi della facoltà di Scienze della Comunicazione, parlava di apparenza e sostanza, Iago parla di invidia, altro tema dominante nell'Italia di oggi. La cosa nuova, per un film di questo tipo, è che non troviamo personaggi positivi o negativi, ma tutti sono animati da una sorta di sottile cattiveria, di arrivismo, di rivalità. È qualcosa che capita a tutti noi, trasformati in iene da un mondo del lavoro privo di meritocrazia che mette tutti l'uno contro l'altro. E che capita anche in politica, dove, destra o sinistra, non possiamo fidarci più di nessuno.
Ci vorrebbe però più coraggio: quello di scrivere una sceneggiatura che non mischi le parole del Bardo con il gergo troppo volgare e ammiccante ai giovanilismi di oggi, nella direzione degli attori (i ruoli secondari, Giulia Steigerwalt su tutti, piacciono più di quelli principali) e soprattutto nel finale, quasi un happy end che stride con quello dell'opera originale, che è la tragedia per eccellenza. Averne stravolto il finale, così come tutto il messaggio, è una vera tragedia.
Ok attualizzare Shakespeare, ammiccare a Baz Luhrmann e raccontare la cattiveria di oggi. Ma cambiare il finale è... una vera tragedia.
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