Il forse futuro suocero, ex neurochirurgo ora in pensione, accoglie con una cordialità venata da qualche battuta politicamente scorretta il futuro genero, della cui pelle si ignorava il colore (ma che importa, è tutta gente che ha votato per Obama). La moglie è una psichiatra specializzata in ipnotismo, c’è anche il fratello di Rose leggermente inquietante. Nel luogo sta per svolgersi l’annuale ritrovo fra gli amici del padrone di casa, anziani e benestanti proprietari terrieri della zona, gente del Sud come minimo bizzarra, pittoresca. Tanto affabile però. Le cose precipitano, in un’atmosfera che alterna momenti inquietanti ad altri grotteschi, mentre Chris si sente oppresso da una coltre di minaccia, che gli fa osservare con ansia anche i due servi neri della tenuta, irrigiditi in una disciplina sospetta. Solo la fidanzata è sempre esente da comportamenti insoliti, sempre condiscendente e confortante. I bianchi sono amabili ma fasulli, anche Chris però non è molto socievole, lui è il primo a sentirsi fuori luogo, a disagio, manipolato, convinto di non poter essere accettato da nessuno della borghesissima, bianchissima congrega. Realtà oggettiva o soggettiva paranoia? Come in un horror anni ’70, da Hooper a Craven o Yuzna, come in un film di Haneke, persone insospettabili possono in un attimo tramutarsi in folli mostri sanguinari. Non si può dire di più, perché sarebbe un grave spoiler. Un ottimo cast, dagli attori principali a ogni faccia di comprimario, si adegua alla perfezione alla storia. Scrive e, con un budget risibile (si dice 5 milioni di dollari), dirige Jordan Peele, al suo esordio alla regia dopo una carriera da attore comico di successo (è una faccia nota), lo ricordiamo in diverse ottime serie tv. Ogni inquadratura, ogni espressione, ogni dettaglio è costruito per dare adito a dubbi, ogni cortesia sembra ipocrisia, ogni sorriso pare falso, ogni battuta a doppio taglio, ogni circostanza innocente può sembrare inquietante. Ottima anche la colonna sonora di Michael Abels, accompagnata da tre stranianti canzoni, Redbone di Childish Gambino, illusoriamente rilassante, Run Rabbit Run del duo Flanagan and Allen (canzonetta dei tempi della guerra contro i nazisti) e la romanticissima The Time of My Life da Dirty Dancing. Get Out, con il titolo italiano Scappa, letterale ma anonimo, è un film geniale, che sotto l’apparenza di un thriller/horror ci ricorda quale sia la situazione negli USA oggi quanto a razzismo, pregiudizi, discriminazione. Ma lo fa con entusiasmante sarcasmo, con intelligente e amara consapevolezza, con sorprendente ironia. Produce il sempre lodato Jason Blum, che ha ridato energia all’horror a basso budget, confermando come attraverso questo genere siano passati i film che spesso hanno denunciato derive sociali e fotografato momenti storici con un’efficacia sorprendente. Ridendo amaro, inquietandoci con situazioni estreme che in un attimo potrebbero avverarsi.