Ritorno a Merwan
La disperazione è una fatina dai capelli verdi
Mark è un uomo devastato. Nel 2000 è stato brutalmente aggredito all’uscita di un bar, dal solito branco di ubriaconi con svastiche tatuate qua e là. Si era azzardato a fare una battuta sbagliata, anche lui aveva bevuto troppo. Ne è uscito dopo nove giorni di coma, con un trauma cranico che gli ha cancellato gran parte dei ricordi, con una manualità ridotta che gli ha impedito di continuare nella sua carriera di raffinato illustratore. In preda a uno stress post traumatico irrecuperabile, imbottito di pillole, ha reagito creandosi un mondo tutto suo, nel cortile della modesta villetta di provincia, un universo di bambole simil-Barbie del quale è l’unico eroe. Ha costruito un piccolo villaggio in scala, chiamato Marwen, tante case con le varie attività intorno a una piazzetta con la fontana, dove ambienta un’unica avventura con mille varianti, un eroe americano durante la WWII (perché mai, gli viene chiesto, perché è stata l’ultima volta che siamo stati i buoni, risponde) alle prese con i malvagi Nazisti (che hanno le fattezze dei suoi aggressori). Intorno un manipolo di donne degne di Tarantino, guerriere invincibili ma anche femmine affascinati sui tacchi a spillo. Perché questa era, è la debolezza di Mark, un’attrazione feticista nei confronti dei tacchi alti, inventati solo nel ’54, lo sa bene, ma che importa. Nel suo piccolo mondo fidato, abitato da “creature” costruite sulle caratteristiche delle poche persone che ha modo di frequentare, Mark è tranquillo, ci saranno difficoltà, sofferenze, durezze, ma alla fine il bene trionferà. Mai per sempre però, perché un’altra delle sue ospiti è una delicata fata volante, con i capelli verdi, che non fa quello che Mark vorrebbe, che lo destabilizza, lo inquieta (il nome è Dejah Thoris, personaggio dell’universo di Burroughs). La resa dei personaggi inanimati non è affidata alla stop motion ma alla CG che tramuta mirabilmente gli attori lasciando un’incredibile espressività ai visi semi-plasticati, come sottoposti a un eccessivo ringiovanimento (deliziosi certi escamotage per sottolineare la natura di bambole) e Zemekis si cita trovando spazio anche per una macchina che dovrebbe portare via l’infelice protagonista nel futuro e si lascia dietro le due fiammanti sgommate, come nel suo mitico film. Di queste sue scene Mark è diventato fotografo e le sue foto lo hanno fatto diventare famoso. Una mostra a lui dedicata aprirà fra poco, lo stesso giorno in cui si avrà la sentenza definitiva per i suoi aggressori. Troppa pressione per il pover’uomo, che nel frattempo si è teneramente innamorato della nuova vicina di casa, immediatamente “arruolata” fra le sue creazioni, una donna anche lei, seppure diversamente, in fuga da un uomo aggressivo. Perché questo è il tema del film, il potere distruttivo della violenza, che non smette mai di lavorare anche quando sembra di essersela lasciata alle spalle. Il film, scritto da Zemekis insieme a Caroline Thompson (Edward Mani di Forbice e Nightmare Before Christmas), è ispirato alla storia vera di Mark Hogancamp, assurto a giusta fama nel 2010 grazie al documentario Marwencol di Jeff Malmberg, ispirato alla foto di David Naugie. Senza voler impartire la lezioncina, Zemekis ci vuole dire qualcosa sui nostri brutti tempi, che sembrava fosse peggio una volta ma ci eravamo illusi e tutto è rimasto uguale, la grettezza, la prepotenza, la cattiveria, l’intolleranza. E come sempre l’unica speranza è affidata al cuore delle persone. Ma anche all’arte con sua capacità di trasfigurare, interpretare, sublimare. Solo grazie all’elaborazione dopo un trauma profondo ci si può riconciliare con il resto dell’umanità, con cui direttamente proprio non si può più interagire. Per proteggerci possiamo selezionare e fare nostri solo alcuni individui, inserendoli in una nostra privata narrazione, non influenzabile da quell’esterno che in un attimo può tramutarsi in un incubo mostruoso. Come non concordare. Chiusura invece che apertura? E chi ha detto che sia un male? Nonostante tutto ciò, nel film Benvenuti a Marwen non troverete niente di melenso o lacrimevole, grazie anche alla sublime interpretazione di Steve Carell, che, sugli schermi in questi giorni anche con Vice, sarebbe ora riconoscere come uno dei migliori attori di questi ultimi anni. E che ci fa amare il suo personaggio con tutta la sua eccentricità, la sottile follia, la capacità di sperare ancora, nonostante tutto, con coraggio.
Toccante, originale
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