"In tempi remoti, la Terra era coperta di foreste in cui, sotto le sembianze di immensi animali, si aggiravano da sempre gli spiriti della natura. Uomini e animali, a quel tempo, vivevano in armonia..."
Inizia così la leggenda di Ashitaka narrante dell'epico scontro tra forze della natura ed esseri umani. Hayao Miyazaki la racconta e la dipinge (è proprio il caso di dirlo) nel suo Mononoke Hime (Principessa Mononoke), capolavoro d'animazione giapponese col quale l'autore riuscì finalmente ad affermarsi sulla scena mondiale, "preparandosi" all'Oscar per il successivo La città incantata. Il film è interamente incentrato su una delle tematiche fondamentali che percorrono il cinema di Miyazaki: l'insolubile contrapposizione tra uomo e natura, di cui in questo film ci vengono mostrate le radici storiche (e leggendarie).
Siamo infatti agli albori dell'età moderna e alla fine dell'epoca rurale giapponese (1392-1573). La nascita della civiltà del ferro accende uno scontro tra umani e creature della natura, un conflitto che arriverà ad una degenerazione tale da produrre una ferita insanabile: la metaforica morte del dio della foresta che non consentirà più di recuperare l'antico equilibrio perduto. Ecco perché ancora oggi, nell'era contemporanea di Ponyo sulla scogliera, Miyazaki continua a ritrarre una natura restia al contatto con l'uomo e, nel peggiore dei casi, anche drammaticamente ribelle.
Con Principessa Mononoke l'autore mette in scena una vera e propria elegia della natura, talmente complessa, efferata e metaforica da poter essere compresa solo da un pubblico adulto, nonché troppo lenta e lunga (133 minuti di malinconica decadenza) per essere adatta ad un pubblico giovanissimo. Sicuramente tra tutti i suoi film, è quello meno consolatorio e più amaro.
Se da una parte le armi di guerra sono un virus in grado di infettare qualunque essere, l'odio è ciò che permette a tale virus di propagarsi, avvelendando corpo e mente, trasformando in demone chiunque ne sia portatore e contagiando anche il prossimo. La follia del lato oscuro dell'anima si propaga fino a segnare la fine del sommo dio della foresta, il cui sangue, nero e denso come il petrolio (sarà un caso?) si abbatte ingurgitando e uccidendo tutto e tutti, punendo uomini, animali e alberi, rei di aver smesso di cercare l'armonia e di aver pensato solo alla propria difesa e ai propri interessi, a scapito del bene comune. Perché le responsabilità di una guerra non sono mai da una parte sola.
Con le sue leggende e le sue maledizioni, e con gli dei e i demoni che le popolano, Principessa Mononoke ipnotizza lo spettatore, grazie anche alla malinconica colonna sonora dal sapore epico, antico e medievale di Joe Hisaishi, in grado di condurci in un mondo non infantilmente fiabesco, ma ancestralmente pagano, popolato di bellissime creature (indimenticabili gli spiritelli degli alberi) e avvolto in un'eleganza cromatica che rapisce lo sguardo.
In mezzo all'orrore di una cieca follia, Miyazaki si riserva comunque di regalarci qualcosa di magico che non è né una speranza, né un'utopia, né una semplice e banale esaltazione dell'amore, parola quantomai riduttiva e inappropriata per esprimere la profondità del sentimento che nasce dall'incontro tra il protagonista Ashitaka e San, "l'umana che odia gli umani", abbandonata da piccola dai suoi genitori e allevata dai lupi. "Noi non stiamo tentando di risolvere i problemi globali", raccontò il regista durante la realizzazione del film "Non ci può essere un finale felice nella lotta tra gli Dei Furiosi e gli uomini. Comunque, anche nel mezzo di odio ed uccisioni, ci sono cose per cui vale vivere. Un incontro meraviglioso, od una cosa meravigliosa, possono esistere".
Questa è l'eredità che il film ci lascia, è il filo che ci viene teso per aiutarci a mantenere l'equilibrio e a non scivolare nuovamente nell'odio e nella (auto)distruzione. Quell'incontro miracoloso, come tutte le storie narrate nel film, è ormai diventato una lontana leggenda. Ma le leggende hanno tutte un fondo di verità. Cerchiamo allora di recuperarne il senso e il valore più profondo.