Stronger - Io sono più forte
La forza del singolo
La Storia è fatta di tante piccole storie. Nei nostri tempi bui del terrorismo islamico, di storie piccole ce ne sono migliaia, perché migliaia sono le vittime innocenti che solo per un caso del Destino si sono trovate nel posto sbagliato al momento sbagliato. Uno di questi personaggi è Jeff Bauman, 27 anni, rimasto coinvolto nell’attentato durante la maratona di Boston il 15 aprile del 2013, data troppo vicina all’11 settembre per non sconvolgere nuovamente il paese, nonostante un numero di vittime infinitamente inferiore (3 morti e 260 feriti). Jeff non partecipava, lui faceva parte della folla che assisteva, festeggiava, sosteneva i corridori, e lo faceva per amore. Aveva infatti rincontrato pochi giorni prima una sua ex ragazza, ancora amata, e aveva deciso di farsi trovare fra il pubblico, mentre sorreggeva un bel cartello di incoraggiamento. Questa amorosa iniziativa lo ha messo nel posto perfetto per finire ferocemente mutilato da una bomba costruita apposta per dilaniare, per devastare (sulla storia consigliamo il film Patriots Days con Mark Wahlberg, di cui Peter Berg offre una valida ricostruzione). All’inizio l’attenzione dei media è altissima, anche perché il ragazzo ha visto da vicino uno degli attentatori e la sua testimonianza viene raccolta dall’FBI. Ma siamo negli USA, l’assistenza sanitaria mette l’ansia se non si ha una valida assicurazione. E il lavoro e la vita privata come proseguiranno? Jeff è un ragazzo semplice, un lavoro in una catena che prepara pollo fritto, è di semplice famiglia, gente grezza, incapace di gestire un evento di tale portata. Nel frastuono dei media, nell’agitazione dei famigliari, Jess deve fare i conti da solo con la tragedia di essersi risvegliato letteralmente ridotto quasi a un mezzo uomo. Diventa un eroe, un simbolo, senza saperlo gestire, gettato in pasto a quelle folle che tanto amano l’uomo comune che affronta un destino crudele e non si lascia schiacciare. L’attenzione mediatica (invitato negli stadi, Oprah vorrebbe incontrarlo) gratifica la famiglia che finalmente si sente oggetto di attenzione, e lui per un po’ si lascia manovrare, con sempre maggiore disagio, usato come vessillo e come ostaggio da un gruppo di famigliari e amici che sono rappresentanti della classe proletaria più comune, ubriaconi appena possibile, sempre una birra in mano e una sigaretta in bocca, parolacce e risse in continuazione. Il suo calvario è aggravato anche dal non facile adattamento alle gambe artificiali. Jeff deve molto alla ragazza che per amore e per senso di colpa (e non sappiamo in quale percentuale) è rimasta al suo fianco, opponendosi alla madre, una donna ignorante che stava vivendo ciecamente una sua rivalsa sociale attraverso la disgrazia del figlio. Mentre diventa sempre più il simbolo dello slogan Boston Strong, nessuno capisce che Jeff non ha più nulla su cui appoggiarsi e non si tratta solo delle sue gambe. Come si esce dalla solitudine della propria diversità, dell’invalidità, della mutilazione che ci ghettizza, in cui ci auto ghettizziamo? Jeff avrebbe potuto ridursi così in uno schianto in macchina, in un incidente sul lavoro. Aver perso entrambe le gambe in un attentato a matrice islamica ha aumentato l’attenzione su di lui, in parte è stato un bene, in parte ha aggravato i problemi. Sui titoli di coda, come d’uso per le storie vere, le fotografie dei reali protagonisti. Dirige David Gordon Green che nella sua attività alterna titoli più frivoli ad altri più di sostanza, in mezzo a varie serie tv. La sceneggiatura, tratta dalla biografia del protagonista, è di John Pollono, attore al suo esordio nella scrittura di un lungometraggio. Jake Gyllenhaal si è prestato per interpretare questo rispettoso ritratto e lo fa con grande partecipazione. Ad affiancarlo Miranda Richardson, la madre, mai vista così efficace, e la giovane Tatiana Maslany (Orphan Black), la fidanzatina esasperata ma mai vinta, sempre coerente una volta effettuata la sua scelta. E se il messaggio finale è patriottico (“non possono distruggerci qualunque cosa facciano”), si deve comprendere che per molti Bauman è diventato portatore di speranza e non infastidisca questa conclusione perché noi europei dovremmo capire che davvero per gli States, per la “gente” degli States, il terrorismo è un tasto particolare al quale noi, finora fortunatamente non ancora colpiti, non ci sappiamo rapportare e liquidiamo certe conclusioni come fastidiosa retorica. Ma dopo l’11 settembre il loro mondo davvero non sarà mai più come prima. Per colpa di chi non importa, importa tutta la gente morta o mutilata o colpita dal lutto che fatica a concedersi fini esegesi politiche. Ma anche ne fosse capace e si interrogasse e dubitasse, i lutti resterebbero. Jeff Bauman è riuscito a diventare un modello positivo invece che un fenomeno da baraccone, un giovane uomo che ha dovuto ricostruire una propria identità a partire da un evento traumatico, da un corpo maciullato, dall’ingiustizia cosmica della quale non si può non sentirsi vittima. Probabilmente è diventato un uomo migliore di quello che era, di quello che sarebbe diventato, una piatta, comoda mediocrità, lavoro di poco conto, a casa con famiglia, birre al bar con gli amici a poi a fare casino e correre in auto nella notte ubriachi, uno Small Town Boy relegato in un quartiere ai bordi della metropoli. Del resto quando cadi in qualche modo ti devi rialzare sulle tue gambe, anche se quelle gambe non le hai più.
comprensibile
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