Quando un padre
Famiglia o carriera?
Cosa vuol dire essere un padre di famiglia? Vuol dire assicurare all'amata moglie e ai tre bei figli una casa splendida, un'assicurazione che copra malattie gravi, un futuro scolastico ai massimi livelli, anche senza degenerare in inutili fasti da Paperone?
Ma se per mantenere tutto questo castello tocca assentarsi tanto da diventare quasi estraneo proprio agli oggetti dell'amore, moglie e figli, passando la maggior parte del tempo a ruggire in ufficio, e a casa sempre col cellulare acceso a continuare a tessere trame, anche discutibili, per non restare mai indietro, per raggiungere sempre l'obiettivo, con la scure della retrocessione sulla testa, ma ne varrà mai la pena? Interrogativo retorico e ipocrita, perché dei problemi insiti in certe situazioni ci si accorge solo quando si è dentro la ruota e poi estirparsi dalla centrifuga diventa quasi impossibile. Se ne accorge Dane (Gerard Butler), un aggressivo dipendente di una potente agenzia di cacciatori di teste, che lavora a percentuale insieme a un team, che viene da lui motivato con metodi da addestramento militare. Tutto gira vorticosamente ma bene, anche se l'uomo comprende che qualcosa per strada se lo è perso. Tutto però subirà una brusca frenata quando si scopre che il figlioletto più grande, un sensibile bambino sui 10 anni ha una grave malattia. Drammatico evento/pretesto per mettere il protagonista davanti a tutto quanto finora non ha voluto vedere (oppure ha visto, guardando poi dall'altra parte). Quando un padre (in originale The Headhunter's Calling) alla resa dei conti si rivela meno lacrimevole e più dignitoso del previsto, meno scontato anche se racconta una storia già vista, il conflitto famiglia-carriera e il ravvedimento di uno squalo in ambito lavorativo, uno di quegli assatanati di cui il cinema americano ci ha fatto fare scorpacciate, l'uomo che, con varie scuse (semplice amore per la smodata ricchezza, accudimento esasperata della famiglia per garantire un futuro sicuro, puro istinto da predatore), si identifica, si annulla nel suo lavoro, lasciando che pervada ogni ora, ogni minuto della sua vita, rendendolo un difficile partner, un padre discutibile, un essere umano pessimo. Da Local Hero a Jerry Maguire, A proposito di Henry e al più recente Promised Land, senza dimenticare la serie Mad Men, abbiamo visto come, al di là di facili e ipocriti moralismi, fermare il treno in corsa a quanto pare sia davvero difficilissimo. Ma qui più che in altre occasioni appare chiaro come in un attimo, alla prima incertezza, alla prima esitazione, si possa ricadere indietro, in fondo, fra le fila di quelli di cui si era fatto strame fino a un minuto prima, senza battere ciglio, ben sapendo come, specie negli attuali tempi di crisi, sia quasi impossibile la risalita (perdendo pure, e nel film è elemento importante, l'assicurazione che paga le spese mediche, anche se si favoleggia che il popolo americano non voglia la sanità nazionale, mah). Da qualche parte però una via di mezzo dignitosa ci dovrà pur essere, fra quella follia da lupi di Wall Street alla malinconia del rinunciatario totale. Una dimensione "umana", nelle sue varie accezioni. Si dovrebbero davvero rivedere i metri di giudizio, cosa significhi essere una "brava persona" senza passare per un fesso illuso. Arduo cammino, ci rendiamo conto, ma qualcuno dovrà pur cominciare, prima o poi. Lo sfondo, sul quale si muove un cast ben impegnato, è una Chicago di bellezza clamorosa, della quale l'adulto sembra rendersi conto solo quando gliela farà scoprire il bambino. E anche questo vuol dire qualcosa.
Convenzionale ma non spiacevole
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