Papillon
Le ali della libertà
Nel 1969 esce il libro Papillon scritto da Henri Charrière, in cui racconta la storia della sua prigionia nella colonia penale della Guyana francese, a partire dal 1931, terminata dopo 14 anni con la sua celeberrima evasione, dopo due altri tentativi falliti. La straordinaria vicenda era già stata portata sugli schermi nel 1973 con la regia di Franklin J. Schaffner e soprattutto con la sceneggiatura di Dalton Trumbo, elemento non da poco, perché si parla di un uomo soggetto a un irrefrenabile desiderio di libertà, capace di sacrificarsi in nome di lealtà e amicizia, incapace di chinare la testa davanti al sistema. E Trumbo da vittima del maccartismo aveva sperimentato sulla propria pelle un tipo di prigionia, un genere di emarginazione, una necessità di sostegno, assimilabili alla larga ai sentimenti del protagonista. Eccezionali protagonisti erano stati Steve McQueen e Dustin Hoffman, in quegli anni all’apice delle rispettive carriere. Arriva adesso sugli schermi un remake/rilettura, diretto dal danese Michael Noer, che per la sceneggiatura si è avvalso della collaborazione di Aaron Guzikowski, personaggio che sembrava promettente, visti i suoi lavori precedenti (la durissima serie tv The Red Road, i film Prisoners e Contraband). Come interpreti ha scelto due glorie delle serie tv, Charlie Hunnam, star indiscussa in Sons of Anarchy, attore che ha comunque all’attivo anche diversi, discreti film, e Rami Malek, che su grande schermo ha finora dato pochissimo (attendiamo il biopic su Freddy Mercury) e che porta nel suo personaggio la fissità dello sguardo del protagonista della serie che gli ha dato fama, Mr. Robot. La versione della drammatica storia è fedele, dettagliata, scritta con l’intento di riportare all’attenzione di un pubblico più giovane (motivo forse della scelta dei due attori) non solo l’avventurosissima storia di Carrière, ma anche di riflettere in tempi di inferocito giustizialismo, sul rapporto fra colpa e castigo, sul ruolo che deve svolgere la detenzione, laddove si escluda la pena di morte. In ogni modo Papillon (detto così per un tatuaggio a forma di farfalla) nella Parigi di quegli anni era uno scassinatore incastrato per un omicidio non commesso, spedito nella mortale colonia penale, da cui mai più, anche sopravvivendo, avrebbe potuto fare ritorno in patria. Immaginiamo molti stimati cittadini che oggi plaudirebbero. Ma sappiamo che anni di indicibili sofferenze, di torture fisiche e psicologiche non sono giustificabili nemmeno se rapportate a colpe ben più gravi. Già durante il viaggio Papillon conosce il fragile Louis Dega, un falsario incastrato per scandali finanziari, e decide di assisterlo nella prospettiva di vedersi finanziata un’evasione. Ma le cose andranno molto diversamente dal previsto e, negli anni di disperata prigionia, il rapporto fra i due diverrà una vera, grande amicizia. Il confronto con il cult del ‘73 affosserebbe questo rifacimento, meglio leggerlo come una nuova versione del romanzo, aggiornata a temi più attuali (Dei delitti e delle pene insomma, pensando al nostro Beccaria), mentre era tipico di quegli anni sottolineare l’anelito alla fuga, il rifiuto dell’ordine costituito, lo slancio anarchico. Fortunatamente non si toccano mai gli abissi dell’atroce remake di un altro grande classico, Ben Hur (fa ancora male pensarci). Purtroppo poco traspare (parte forse per limiti di scrittura, parte per le non ancora affinate doti recitative di Hunnam) della fame di vita, dell’indomabile anelito alla libertà, dell’ostinazione a non volersi spezzare dell’originale. E anche Malek/Dega sembra troppo giovane e fragile per il ruolo. E si finisce per accettare passivamente il legame che nasce fra i due, che non viene sufficientemente motivato, nella non nuova abbinata “il braccio e la mente”. Manca insomma il pathos della versione originale anche perché pesa la mancanza di due interpreti del calibro di McQueen e Hoffman. Confermiamo quindi la nostra convinzione che certi grandi classici non vadano mai ripresi. Meglio e meno costoso restaurarli e magari distribuirli di nuovo in sala, per permettere alle nuove generazioni di apprezzare la bravura di grandi autori, di grandi interpreti che si danno per scontati e invece poco alla volta finiscono dimenticati.
Accettabile, non memorabile
6