Made in Italy
Sono un italiano, un italiano vero
di Giuliana Molteni •
Come passa la vita? Passa mentre non ce ne accorgiamo e quando ce ne rendiamo conto è spesso troppo tardi. Il nuovo film diretto e scritto da Luciano Ligabue traduce in immagini il suo CD omonimo, che aveva ambizioni di concept album, sua terza regia dopo Radio freccia del 1998 e Da zero a dieci nel 2002. Racconta la vita semplice di Riko, uomo medio dalle non molte qualità, un personaggio mutuato sui tanti concittadini di Ligabue, amici e conoscenti collezionati in anni di frequentazione sul posto, forse nel mitico Bar Mario (Ligabue non ha mai abbandonato i suoi luoghi natali). O forse anche sul proprio padre, chissà. Riko è un uomo con famiglia, con problemi sentimentali, un figlio in cerca del suo futuro, conti da far quadrare, incastrato da trent’anni in un salumificio, il tempo libero sempre con gli amici di una vita, partite a carte o qualche cena tutti insieme. Giorno dopo giorno tutto sembra però sempre più opprimente, più esasperante. E si fatica a sopportare quando ci si rende conto di quanto angusto sia lo spazio in cui ci siamo relegati, quando ci si rende conto che qualcun altro (il Destino?) ha tracciato il solco nel quale ci siamo lasciati ridurre. Mentre intorno nessuno ti fa i complimenti per quanto sei stato una brava persona, anzi tutto congiura per schiacciarti sempre più giù, nella generale incertezza per il futuro, per se stessi e i figli. Si raggiunge un climax, passato il quale c’è uno sbocco, perché una volta raggiunto il fondo, o ci resti o riemergi. Del resto, da qualche parte bisogna pur cominciare, se davvero si vuole cambiare, nessuno lo farà per noi. Ligabue racconta mettendo in fila tante scenette, come una serie di fotografia animate in successione temporale, che seguono l’innalzarsi dei problemi e l’aumento dell’infelicità del protagonista, cui fa da coro il disagio pur diversamente vissuto di tutti i comprimari. Ma questa progressione pecca di fluidità, nel progredire della narrazione si avverte un che di meccanico, e soprattutto latita il coinvolgimento. Coraggiosa la scelta, immaginiamo voluta, di affidare il ruolo di protagonista a Stefano Accorsi, bravo attore ma non particolarmente simpatico, per niente “piacione”. La sensazione è quella di una storia costruita a tesi, che vuole veicolare un “messaggio” (più che positivo alla fine, anche se la strada è costellata di lacrime, sudore e ovviamente sangue), anzi più di uno, perché si va dal personale al sociale e al politico con la volontà precisa di essere positivi in un momento storico che indurrebbe a ben altri stati d’animo. Meglio, molto meglio le parole del Ligabue cantautore nella sua bella canzone Per sempre, dedicata al padre “Mio padre di spalle sul piatto, si mangia la vita e poi sulla pista da ballo fa un valzer dentro il suo nuovo vestito”.
Volonteroso, sforzato
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