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L’uomo di neve

La vendetta si serve ghiacciata

di
Jo Nesbø è un prolifico autore norvegese di grande successo, un suo altro romanzo, Il cacciatore di teste, con Nikolaj Coster-Waldau, era già stato portato su grande schermo e sono in arrivo ulteriori riduzioni di altri romanzi. Il protagonista di L’uomo di neve è un altro dei suoi personaggi ricorrenti, Harry Hole, poliziotto afflitto da varie turbe forse post traumatiche, protagonista di ben 11 suoi romanzi. Siamo in un’innevata e desolata area montuosa, un prologo ambientato diversi anni indietro ci mostra una drammatica situazione che ci lascia già intuire molto dello svolgimento successivo. Incontriamo poi Harry in un’altrettanto innevata e glaciale Oslo, reduce dall’ennesimo, devastante sconvolgimento etilico, ma di cui poi poco sapremo (casi passati stravolgenti, una compagna da poco lasciata, con un figlio non suo ma che in fondo ama anche se trascura).

Sarà presto investito da un caso orripilante. Un serial killer (che sia serial si capisce subito) ammazza donne in modo orribile e altrettanto orribilmente dispone i loro corpi segnalando il suo passaggio con pupazzi di neve. A coadiuvare Harry arriva l’efficiente poliziotta Katrine, che però nasconde qualche segreto. Tutti in ogni modo, vittime o colpevoli in vario grado e per colpe varie, ne nascondono a loro volta. Emerge un’incapacità collettiva di essere felici, causata dai nuovi equilibri nel rapporto uomini/donne, da una diffusa incomunicabilità generale, indotta anche dalla glaciale desolazione dell’ambiente. L’uomo di neve film è purtroppo un thriller risibile, per vari e diversi motivi, far cui la reiterazione di due tipi di personaggi di cui davvero non se ne può più: uno è il detective disturbatissimo, con problemi di alcool e altre dipendenze, incapace di rapporti affettivi, fumatore, impasticcato, stazzonato e pure maschilista. L’altro è il serial thriller con la sindrome da padreterno, afflitto da terribilissime turbe emotive dovute a terribilissimi traumi infantili, che architetta delitti efferatissimi di macchinosa esecuzione, con macchinosi collegamenti fra le vittime. Qui inoltre una narrazione eccessivamente spezzettata mischia troppi personaggi, troppi fatti presenti e passati, rendendo fumosa la spiegazione finale, lasciando in dubbio su molti dettagli, incerti sui vari collegamenti, suscitando involontaria ironia con altre lacunose spiegazioni, rendendo ridicoli alcuni passaggi che dovrebbero essere drammatici. La suspense latita (tanto ci si aspetta sempre il peggio e ogni personaggio si comporta in modo da meritarselo, quel peggio), lasciando un senso di complessiva insoddisfazione. Non si capisce come abbia fatto Tomas Alfredson a confezionare un prodotto così pieno di difetti, dopo il bellissimo Lasciami entrare e l’altrettanto lodevole La talpa.

Probabilmente il peso del tomo originale, libro da 530 pagine, ha obbligato la sceneggiatura a tagli massicci, che rendono alcuni personaggi quasi incomprensibili (mentre si intuisce l’importanza che dovevano avere su pagina scritta). Uno dei quali è quello di un investigatore che incontriamo nei flashback, che è affidato a un grottesco Val Kilmer reso irriconoscibile da un massiccio calo di peso (lo si riconosce perché si sa che compare nel film, ma il primo impatto è devastante, si intuisce la sua identità dalla capigliatura). Sprecata pure Rebecca Ferguson (Mission Impossible, La ragazza del treno, Life), che non è solo una bella pupattola e avrebbe meritato migliore trattamento. Charlotte Gainsbourg è la compagna ancora amata e che forse riama anche lei. Compaiono brevemente Chloë Sevigny, una delle vittime; l’uomo di potere J. K. Simmons (altro personaggio la cui presenza diventa quasi incomprensibile); James D’Arcy, ambiguo consorte di una delle vittime; Toby Jones è un poliziotto umiliato mentre Jamie Clayton, presenza sempre di peso dopo Sense8, è una donna di legge pure lei; David Dencik come in Top of the Lake 2 fa il pervertito. Cast molto vario, dunque, ma sprecato. Sprecatissimo Michael Fassbender, che cerca di dare intensità al suo personaggio fumando molto e non facendo mai una doccia (e mai una gioia). Pure il comparto tecnico era da grandi occasioni, con nomi noti come Dion Beebe alla fotografia e Marco Beltrami per la colonna sonora, degni di miglior impiego. Inspiegabile la bruttezza del frammentatissimo montaggio (probabilmente è cosa voluta per fini misteriosi ma totalmente mancati), opera della mitica montatrice Thelma Schoomaker, la cui presenza è giustificata dall’amicizia con Martin Scorsese, che compare come produttore esecutivo, mentre in origine avrebbe dovuto dirigere lui il film. Forse sarebbe stata un’altra cosa.
 

Un fallimento

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