It
Sette spettri a denti stretti
di Giuliana Molteni •
Autore snobbato dalla critica ufficiale, Stephen King ha saputo descrivere, meglio di molti colleghi blasonati, le vette e gli abissi della natura umana, l’eroica capacità di alcuni di ribattere ai colpi che il Destino, sempre crudele, ci assesta, l’irresistibile attrazione di altri verso il Male, la cui presenza, sotto forma di altri esseri umani o di creature sovrannaturali o semplicemente del cancro, incombe da ogni angolo delle nostre fragili esistenze, trasudando da ogni luogo nascosto che ci circonda. Soprattutto pochi come King hanno narrato di quelle età drammatiche, infanzia e adolescenza, quel momento in cui un vulnerabile bambino si affaccia ad un mondo pieno di insidie, dove ragazzi e adulti già a loro volta segnati gli si rivoltano contro provocando ferite che mai guariranno, che li renderanno poi a loro volta vulnerabili. Perché è nelle fessure dell’anima che si insinua il Male.
Tutto questo ambientato in una provincia che è quella che il cinema americano ci ha insegnato a conoscere tanto bene, fra commedie rosa o nere, le cittadine ordinate e pacifiche (all’apparenza), le linde villette con le bianche staccionate, verdi prati e, ai margini, idilliache foreste (all’apparenza), tutto un susseguirsi di vite serene e di rapporti di buon vicinato (all’apparenza), mentre la natura cambia i suoi colori. Nell’illusione che la cattiveria sia solo quella del bullo di scuola, dell’anziano rancoroso, del poveraccio che vive in una baracca, tutti facilmente identificabili e per questo forse evitabili. Mentre il vero Male assume ben altre forme, più subdole e insinuanti, nero coagulo delle minacce del tutto plausibili che potranno avverarsi da un minuto all’altro nel futuro più vicino o più lontano. King è anche un descrittore preciso di stati d’animo, cantore di quella solitudine che la “diversità” può portare. E in una piccola, conformista cittadina di provincia, essere “diversi” può essere questione di poco. Summa di tutto questo e di molto di più è stato It, 1000 pagine pubblicate nel 1986, stupendo romanzo, la cui riduzione tv nel 1990 non aveva soddisfatto nessuno dei suoi lettori, per necessità televisiva alleggerita e sfrondata, che aveva lasciato nel ricordo collettivo solo la splendida maschera di Tim Curry nel ruolo del maligno clown Pennywise.
Oggi ci riprova Cary Fukunaga, dopo il successo di True Detective, che avrebbe dovuto dirigere il film e che invece aveva abbandonato dopo divergenze con la produzione. Al suo posto sia per elaborare la sceneggiatura sia per dirigere il film, è subentrato Andy Muschietti (già responsabile dell’inquietante La Madre). Che sposta la storia dagli anni ’50 agli ’80 e la divide in due film. Il primo è questo, che racconta la storia dei ragazzini, il gruppetto dei magnifici Perdenti, quattro che diventano cinque e poi sei e poi sette con l’aggiunta dell’unica ragazza, amata da due, adorata da tutti. E il secondo film, che arriverà però fra ben due anni, li vedrà adulti, tornati a Derry perché anche il Male vi è tornato e va sconfitto definitivamente per riuscire una volta per tutte a guarire dalle antiche ferite. I ragazzini incontreranno quel Male, che permea la zona e riappare ogni 27 anni per nutrirsi degli abissi dell’animo umano (come da lovecraftiana ispirazione di King) e che per ciascuno assume forme, fattezze diverse per raggiungere meglio la sua vittima, perché ciascuno ha una sua personale vulnerabilità. Intorno un mondo adulto, lui si veramente “mostruoso”, ostile, corrotto, semplicemente indifferente, reso insensibile o peggio nei confronti dell’innocenza dei bambini, guarda e non vede, non vuole vedere, o, se più fragile, sposa la mostruosa causa del Male diventando carnefice a sua volta. Il mondo degli adulti di Derry, simbolica città inventata da King su modello della sua Bangor (dove Muschietti ha girato il film) vive indifferente sopra lutti enormi voltando pagina cadavere dopo cadavere, mentre sotto i piedi scorre nelle fogne l’orrore, come spazzatura nascosta sotto il tappeto. Solo il gruppetto dei ragazzini oserà andare a vedere il gioco dei loro persecutori.
Per ovvi motivi, fra cui il principale è che li conosciamo solo da piccoli e non anche da adulti come nel romanzo, è di minore efficacia il ritratto del gruppetto di amici, la cui tipologia, descritta in rapide pennellate, finisce per farli assomigliare a troppi altri “sfigati” di troppe altre storie di quell’ambientazione (con l’eccezione di Beverly affidata a una promettentissima Sophia Lillis). Così come ormai è sfruttata la figura del clown assassino, che qui è meno inquietante di quello di Curry, perché sempre troppo smaccatamente malvagio e quindi mai subdolamente ammaliante. Visivamente notevole il quarto d’ora finale. Il nuovo It non è certo un brutto film, ben raccontato e ben interpretato da un gruppo di interpreti scelto con cura, ma non è bello abbastanza per essere considerato un’adeguata trasposizione dello splendido romanzo di “formazione horror” ( perché la vita di un ragazzino può essere un horror), di cui non riesce a trasmettere l’intensità emotiva originale. Penalizzante inoltre dalla scelta di spezzare la narrazione in due film, perdendo l’intreccio fra passato e presente che era nel romanzo. Tutti questi discorsi poi si fanno fra chi ha letto il libro, escludendo o non volendo pensare a quanti non lo abbiano fatto e vadano al cinema aspettandosi un horror alla Jason Blum. Dopo tanti anni e tanti film del genere, inevitabilmente questo It fa meno paura e rischia di sembrare derivativo di tutti quei film (e quelle serie tv, Stranger Things su tutte, con cui condivide anche un interprete, Finn Wolfhard) che invece tutti derivano da King e dal suo mondo.
Tutti galleggeremo
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