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I Tonya

Il peso delle radici

di
Tonya Harding è come l’America, o la ami oppure no. Negli anni ’70, Oregon: cresciuta con tutta l’aggressività e l’odio per un mondo da cui si sentiva esclusa, pur odiando quello da cui proveniva grazie alla spaventosa educazione “siberiana” impartita dall’orribile mamma “Bossy”. Per passione e per doti naturali si appassiona fin da piccina al pattinaggio, spinta (anche materialmente) dalla madre, che vede nella figlia la possibilità di fare il salto di qualità. Ma la ragazza è autodistruttiva, fuma troppo e soprattutto sposa la nullità assoluta Jeff, che la pesta sistematicamente. Diventa campionessa nei primi anni ’90, mal vista dall’establishment dell’ambiente, perché ritenuta socialmente inferiore, “truzza”, rappresentante di una classe indegna di volteggiare armoniosamente sui pattini. Anche se Tonya era stata la seconda donna a eseguire il mitico triplo axel (la piroetta in volo). Si scontra con la rivale Nancy Kerrigan, che è tutto ciò che lei non sarà mai, ma forse è meno brava sul ghiaccio. Circondata da un campionario di umanità sconvolgente quanto a grettezza e brutalità, gentaglia violenta ma dalla limitata capacità mentale, degna di una stagione della serie Fargo, commette errori che le costeranno tutto. Nel 1994 la Kerrigan viene aggredita da un balordo, mandato dal marito di Tonya. La sua eventuale complicità non è mai stata però dimostrata. Ma le è ovviamente costata la carriera, dando inizio a una discesa irreversibile.
 
 
Tony da piccina è interpretata da Mckenna Grace (Gifted), dai 17 in avanti da una superlativa Margot Robbins, nelle scene sportive più complesse sostituita dalla CG. Oscar meritatissimo per la grande Allison Janney, che interpreta la madre, una donna davvero mentalmente deviata, figura per la quale non si riescono a trovare appigli giustificativi, vittima probabilmente anche lei di una catena di soprusi famigliari che risalgono a una storia di famiglia, a una cultura del luogo.
 
Il marito è Sebatian Stan (Avengers), ingannevolmente perbene. Il folle amico Shawn, è affidato a Paul Walter Hauser, già notato per bravura nella serie Kingdom, caratterista del quale si intuisce una futura carriera di successi. Julianne Nicholson è la sua coach, mai convintamente solidale, rappresentante di facciata di un’ipocrita società tanto per benino.
 
Il film, scritto da Steven Rogers, è diretto da Craig Gillespie (Lars una ragazza tutta sua, L’ultima tempesta), partendo, come si dice sui titoli di testa, da una serie di “interviste contraddittorie” con i reali protagonisti della storia. Gillespie incrocia il biopic tradizionale al finto documentario, con un’ironia a tratti esemplare (per capirci, ogni tanto viene anche da ridere, pur amaramente), per tracciare un plausibile ritratto di un personaggio che nel finale stringe davvero il cuore, nella sua capacità di affrontare le conseguenze dei propri errori, di cui sa di essere parzialmente colpevole. Dote rara.
 
 

esemplare

8