Hereditary
Meglio orfani
In uno chalet in legno perso nei boschi, in stile vagamente svizzero/lugubre, si celebrano le esequie della capofamiglia Ellen, pianta dalla figlia Annie (Toni Collette), dal di lei marito (Gabriel Byrne) e dai due figli adolescenti, il maschio Peter e la femmina Charlie. Ci viene subito detto che l’anziana signora era a dir poco eccentrica, una specie di medium/spiritista, che i rapporti con la figlia non erano idilliaci, data la strana corte di cui Ellen si circondava, che Annie è una ricercata artista che ricrea con modellini iperrealisti storie di vita (anche la sua), “case di bambola” di cui è il demiurgo assoluto. Similitudine lampante con la situazione che la donna dovrà affrontare, in cui forze occulte sposteranno lei e i suoi cari come ignari pupazzetti, piazzandoli là dove dovranno essere. Vedremo anche che il marito è una brava persona troppo accondiscendente, che la figlia dall’aspetto inquietante ha come hobby creare strani pupazzetti con oggetti di scarto e parti di animali morti, che il figlio dall’aria perennemente unticcia assiste attonito a quanto gli si muove intorno, anche perché spesso rintronato dalle droghe. Cosa aspettarsi di originale? Eppure qualcosa ci si aspettava, viste anche le (misteriosamente) entusiastiche rewiew d’oltre oceano. E invece. Ancora in crisi per il lutto della madre, Annie finisce vittima di un’altra tragedia e da lì (per lei e per lo spettatore) ogni reazione logica svanisce, in una brusca accelerazione verso la follia (sua e della sceneggiatura). Fra medium, sedute spiritiche, riti macabri, libroni con scritte e disegni inquietanti, candele a profusione, bicchieri che fanno da tavoletta Ouija, Principi del male (con la maiuscola), presenze demoniache, spiriti vendicativi, soffitte che nascondo orrendi segreti, ci si avvia a rotta di collo verso la catastrofe (della famiglia e del film). Specie nell’horror è sottilissima la linea del ridicolo che mai deve essere superata. Hereditary non spaventa, non inquieta (in un paio di occasioni forse disgusta) e terribilmente fa quasi ridere, virando sul grottesco proprio quello che doveva essere il tragico culmine. Troppo netto è lo stacco fra le pretese pur blandamente interessanti della prima parte, mentre nella seconda si precipita cliché più vieti. La messa in scena è accettabile ma a non reggere proprio sono i caratteri dei personaggi, una spanna sopra l’improbabile, l’assurdo, il ridicolo appunto. Molte altre volte abbiamo detto che non è possibile che solo negli horror si concentrino tali quantità di imbecilli, di gente tonta, che si avvia verso un destino che lampeggia clamorosamente con lettere al neon senza accorgersene, tanto da far loro augurare la peggior fine possibile, vista l’incapacità di una sana reazione, di un comportamento logico. Per farcelo accettare bisogna essere Polanski o Friedkin. In questo caso diamo almeno atto alla regia di non aver fatto ricorso ai trucchetti da “salto sulla poltrona”, abbandonandosi solo nel finale allo splatter con una scena che ci ha ricordato un film del 1999 di Takashi Miike, Audition. Quindi discreta esposizione di una storia debole, meglio il regista dello sceneggiatore? Peccato che in questo caso tutto sia da ascrivere alla stessa persona che è Ari Aster, al suo primo lungometraggio. Ma ci sono sempre le second chance, si vedrà. Per ora ci sembra che farebbe meglio a girare storie scritte da altri.
Spiriti e satanassi
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