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Gifted – Il dono del talento

La solitudine dei numeri primi

di
Chissà cos’è la “normalità”, dipende sempre dal contesto, dipende dalla natura della “diversità”. Una diversità che sembrerebbe ambita è quella intellettuale, un quoziente di intelligenza superiore può instradare verso una vita di successo. Ma certo questo instradamento avviene spesso prematuramente e indirizza pertanto il soggetto dotato a rimanere per tutta la vita confinato in un territorio avulso dalla “normalità”, dietro steccati di privilegio ma anche di dovere e stress. Meglio, peggio? Chi può dire. L’ideale sarebbe un percorso che, pur tenendo rispettoso conto delle peculiarità del soggetto, consentisse un armonioso sviluppo di un’intera personalità, considerando che solo su un’infanzia variegata e serena si costruisce un’equilibrata personalità adulta. Di questo argomento si occupa Gifted, il film scritto dal quasi esordiente Tom Flynn e diretto da Marc Webb (The Amazing Spider-Man, (500) giorni insieme), che mette in scena una situazione limite, ovviamente, ma utile per suscitare riflessioni interessanti. Frank è uno zio single che sta crescendo l’amata nipotina, priva di padre e da poco orfana anche di madre, Diane, amata sorella di Frank, una giovane donna che era una geniale matematica. Lui ha rinunciato a una brillante carriera per crescerla nel modo più sereno e tradizionale, lungo le rive del fiume a Savannah, nella rilassata Georgia. Impresa ardua perché Mary, sette anni, è una ragazzina super-dotata, mentalmente avanti anni luce dai suoi coetanei anche se emotivamente ancora vicina all’infanzia.
 
A minare l’equilibrio della famigliola, arriva la nonna di Mary, madre di Frank e Diane, che ingaggia una battaglia legale per ottenere l’affidamento della bambina e farla crescere fra i suoi pari. Nella scuola “normale” che frequenta, Mary del resto si annoia molto e le insegnanti stesse premono perché sia inserita in una struttura più adatta alla sua levatura intellettuale. Ma questo sarebbe davvero bene per la bambina o rischierebbe di sottrarla a un percorso di crescita “normale”, facendo di lei un’infelice come era stata la mamma? Il film è ben interpretato da Chris Evans che, come altri finito nel tritacarne di lusso dei supereroi, rischia di essere considerato incapace di “recitare” per davvero. Assai ben scelta la piccina, Mckenna Grace, nove anni ma che recita da quando ne aveva cinque, un po’ prodigio pure lei, quindi, adeguatamente a tratti poco simpatica. Così come non brilla per simpatia Lindsay Duncan, che rende bene la discutibile anche se comprensibile figura della nonna. Il tema era già stato ottimamente trattato nel lontano 1991 da Jodie Foster nel film Il mio piccolo genio, prima sua regia. Un “diverso”, superiore intellettualmente alla massa, deve accettare il suo destino di “emarginato” per assecondare la sua particolarità, la sua diversa superiorità, rassegnandosi prematuramente alla compagnia solo dei suoi simili? O deve accettare qualche compromesso per amalgamarsi al resto dell’umanità, anche se non è chiaramente alla sua altezza? Sarà una perdita di tempo, ne varrebbe davvero la pena? Ma forse nell’empireo dei geni fa freddo e ci si sente soli. Come tante altre volte nella vita, la soluzione si dovrebbe trovare in un ragionevole compromesso.
 

Un piccolo film meritevole

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