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Codice criminale

Non ci sono zingari felici

di
Nella campagna inglese del Gloucestershire risiede un’enclave di zingari irlandesi, in una radura con un gruppo di roulotte posteggiate in cerchio, a simulare una parvenza di collettività, come un villaggio intorno alla piazza, nel degrado e nella sporcizia. La comunità è dominata da Colby Cutler (Gleeson), che incute rispetto e obbedienza a tutti ma soprattutto all’erede di tale spregevole regno, il figlio Chad (Fassbender).
 
La comunità vive di furti e razzie, di illegalità sparse, di soprusi e prepotenze con i locali e fra loro, per nulla arginata dalle forze locali cui la legge pone vincoli che l’agguerrito gruppo di delinquenti sa bene come sfruttare a proprio vantaggio. Ma Chad ha sposato una donna che ama, ha fatto due figli e non osa quasi ammettere che vorrebbe vivere diversamente, lui analfabeta manda i bambini a scuola, vorrebbe una casa vera fuori dalla “tribù”, vorrebbe essere libero dall’oppressione del padre. Mentre medita tali pensieri e fa deboli tentativi di affrancamento, non riesce a disobbedire, a dare un vero taglio a un velenoso cordone ombelicale. In tempi così bisognosi di legalità e controllo, non ci sembra il momento adatto per una storia del genere. Perché la Famiglia Cutler non ha nessun appeal di romantica lotta sociale, non sono fuorilegge schiacciati dal governo, contadini taglieggiati, borghesi truffati ed espulsi dal sistema, loro dal sistema sono sempre stati fuori e orgogliosamente, e lo saccheggiano con disprezzo, facendosi beffe di chi le regole le segue, Polizia compresa, che finisce sempre beffata dopo estenuanti inseguimenti di macchina a rotta di collo nelle campagne circostanti. Il capo clan è un odioso Padre padrone che si atteggia a subdolo papa della miserabile comunità, semi analfabeta, convinto che la Terra sia piatta.
 
Il regista Adam Smith (all’attivo un docu sui Chemical Brothers, che qui scrivono la colonna sonora, e alcuna serie tv) tratteggia un folklore per nulla attraente, che non riesce a farci empatizzare con nessun personaggio. Forse regista e sceneggiatore (Alastair Siddons, regista prestato alla scrittura) non avevano l’intento di rendere attraenti e postivi i loro “eroi” (anche se affidare il ruolo del protagonista a Fassbender è perlomeno sospetto), che sono dipinti come brutti sporchi e cattivi, e interessava descrivere la catena indissolubile che passa da una generazione all’altra, senza integrazione insomma (tema oggi assai sentito e con ben altre etnie). Il film è centrato sul vano dibattersi di Chad, un uomo inadatto al suo stesso habitat, ma debole, abituato a piegarsi all’autorità paterna, a soccombere, che non riesce a sottrarsi a opporsi, anche quando viene minato il suo rapporto con il figlio bambino, che subisce inevitabilmente la fascinazione del vecchio “patriarca” deviato. Ma alla luce di questa lettura, risalta ancora maggiormente illogica la conclusione, di irritante faciloneria, e la ribellione di Chad, che fino a quel momento prometteva qualche sviluppo interessante, una simbolica soppressione del padre per permettere al figlio di acquisire vera autonomia, si sfalda in una conclusione senza senso, inutilmente “romantica”, inquadratura finale compresa.
 
Banale il titolo italiano, che tradisce il più appropriato originale che è Trespass Agains Us. Il contesto generale, la comunità di “ribelli” che rifiuta la società che però depreda per sopravvivere, ricorda vagamente la serie tv Outsiders, che era ambientata nei monti Appalachi negli USA, mentre qui si afferma che si è presa a modello una reale famiglia criminale inglese. Uno spreco quindi per l’ottimo cast, Fassbender riesce a rendere con convinzione la sua sofferenza, Gleeson è il detestabile re di un regno di degrado. Rory Kinnear è un poliziotto non banale; Sean Harris è un sempre inquietante “matto del villaggio”. Ben scelta Lyndsey Marshal, la moglie un po’ sfiorita, con le sue vane istanze piccolo borghesi, che si arrende alla sua impotenza.
 

Insufficiente

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