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Chiamami col mio nome

Ai nostri amori

Non è un film per ragionieri dei sentimenti, l’ultimo diretto da Luca Guadagnino. Il regista, divenuto noto a livello internazionale con Io sono l’amore, racconta una di quelle che si sarebbe portati a liquidare come “sue solite storie”, ambientate in quel suo giro che è stato così fastidiosamente internazionale in A Bigger Splash, un po’ quel “vorrei essere Bertolucci”, ma meno politico, meno socialmente attento, che spesso sembra solo inutilmente snob. E può anche darsi che questa volta molta parte del merito vada alla sceneggiatura di James Ivory. Qui siamo nel 1983, fra gente colta e civile, gente della buona borghesia internazionale, un professore americano, la sua bella moglie che possiede vasti terreni nelle campagne del cremasco, e il figlio Elio, scontroso in quanto perfetto diciassettenne. Vivono in una dimora di campagna, una vera cascina di autentica bellezza, senza gli aggiustamenti modaioli che si potrebbero temere, con personale di servitù locale, sempre viva di amici che arrivano e ripartono. Lì approda Oliver (il bellissimo Armie Hammer), l’americano adulto con tutta la sua carica di sicurezza e vitalità, per collaborare per un po’ agli studi del padre di Elio. Che attrae suo malgrado il ragazzo, che sta appena sperimentando la sua sessualità con una coetanea del posto. Sono tutti colti, cosmopoliti, poliglotti, si parla in inglese, italiano, francese e anche tedesco, i genitori sono perle rare di delicatezza, di comprensione, di supporto.  Ma niente può mettere al riparo il proprio figlio dai dolori della vita, dall’avventurarsi lungo il tortuoso sentiero che porterà alla propria maturità, alle proprie scelte, in qualunque direzione esse vadano (questo è l’importante). Cast incredibilmente perfetto, una rivelazione Timothée Chalamet, perfetti Armie Hammer e Michael Stuhlbarg. Guadagnino trasporta sullo schermo un libro di André Aciman, scritto nel 2007, considerato pietra miliare per la rivendicazione/riconoscimento della propria sessualità da più di una generazione, una storia che solo un miope potrebbe interpretare come puro manifesto lgbt. Al netto delle sue peculiari civetterie che qui sono più contenute e accettabili del solito (un’attenzione che suona stonata alla situazione politica, l’insistito cosmopolitismo dell’ambiente), il regista racconta con una delicatezza, con un realismo e un’efficacia davvero rara il gioco di attrazioni, le spigolosità, il cercarsi e negarsi di due persone (non importa quasi quale sia il loro sesso) che si attraggono e si cercano ma si rifiutano perché sanno che non è cosa. Non c’è il dramma, mai la tragedia, non c’è repressione, non siamo dalle parti di Brokeback Mountain, non succedono cose cruente. Call Me by Your Name è una malinconica storia che parla di adolescenza, di crescita, di pulsioni misteriose e soprattutto di amori indimenticabili che però finiscono, di amori impossibili. E quindi universali, quindi anche per adulti e per chi abbia già ben deciso la propria inclinazione sessuale. E si va avanti a viverci sopra, perché così è la vita, bellezza, giusta o ingiusta che sia. Non ghettizziamo questo film per favore, che trova il suo struggente finale nella bellissima Visions of Gideon di Sufjan Syevens. (Notazione finale, indispensabile vedere il film in originale con sottotitoli, il doppiaggio gli nuoce gravemente).
 

Love my way

8