Blade Runner 2049
Anche gli ologrammi hanno un cuore
di Giuliana Molteni •
Se personalmente non siamo mai riusciti ad accettare che Blade Runner, diretto nel 1982 da Ridley Scott, tratto dal romanzo di Philip K. Dick, fosse rubricato nel genere “fantascienza”, questo fa capire il peso che ha avuto nel nostro immaginario, nel nostro bagaglio emotivo, quel memorabile film. Per molti, per noi, il film della vita, non solo perché visionario film di fantascienza capace di influenzare esteticamente i decenni seguenti, ma perché perfetta e tragica metafora dell’esistenza umana, mai più sintetizzata al cinema con tanta efficacia. Noi tutti siamo replicanti di un supremo demiurgo e invano ci affanniamo a chiedergli più vita, perché il progetto originale ci ha voluti “terminati”, soggetti al ritiro dal mercato al momento deciso.
Contro tutto questo è inutile affannarsi, ribellarsi, fuggire. Intanto ci affanniamo perché la bellezza del mondo riempia i nostri occhi, e le mille storie di libri e film saturino i nostri ricordi, e tutta la musica che fluisce costantemente intorno a noi trabocchi dalle nostre orecchie, e sentimenti, emozioni colmino la nostra anima, in un arricchimento continuo, uno strato dopo l’altro a formare quell’unicità preziosa e irripetibile che ciascuno di noi è. Quale cosmico, inaccettabile spreco se tutto questo dovrà perdersi come una lacrima nella pioggia. Con un simile carico sulle spalle, davvero da far tremare i polsi, non dubitiamo che Denis Villeneuve, con l’ausilio degli sceneggiatori Hampton Francher, che era stato fra gli autori del primo film, poi sostituito, rimasto inattivo da anni, e Michael Green, una carriera fra le serie tv, abbia assunto alla leggera la responsabilità di un sequel. Che sarà apprezzato diversamente a seconda che si sia veri cultori del primo film o semplici spettatori “ignoranti”. Ma non c’è nulla di più lontano da un pop corn movie per “ignoranti” di questo trattamento. Perché Blade Runner 2049 così come si discosta dalla drammatica metafora esistenziale che per noi era cardine del film del 1982, si concentra su un rovello più intimo, più sentimentale, e con una lettura se vogliamo più “politica” della diversità dei replicanti. Il tutto con poche ed eleganti concessioni all’action, anche se non mancano alcuni feroci combattimenti. Come buon senso impone e come cortesemente ha chiesto lo stesso regista, si deve scrivere dicendo meno possibile, per non togliere il piacere della scoperta dell’intreccio narrativo. Che è complesso, si snoda lungo più di 160 minuti, dei quali a tratti si avverte il peso, con una prima parte più faticosa e aggrovigliata, ma che si riscattano in un finale più teso e coinvolgente, che all’ultimo “replica” (anche astutamente, se vogliamo) il mitico film di Scott. Nel 2049, dopo un devastante blackout avvenuto nel 2022 che ha cancellato dati e progressi tecnologici, la Tyrell è fallita, al suo posto è subentrata la multinazionale di un altro folle tycoon misticheggiante pure lui (perché quando si replica la vita, perdere la testa è un attimo), Niander Wallace. A rastrellare i pochi esemplari rimasi dell’esperimento Nexus 8 sono stati sguinzagliati dei replicanti di nuova generazione, assolutamente non a rischio di indipendenza. Uno di loro è K, che assolve impassibile i comandi della sua Madame, capo senza scrupoli quando c’è da difendere la razza umana dai rischi connessi all’uso imprudente di certe tecnologie estreme. Ma nel corso dell’eliminazione dell’ultimo “lavoro in pelle” (Dave Bautista, degno di nota) K incappa in un dettaglio che mette in moto una catena di devastanti avvenimenti, che permetteranno di conoscere la sorte di antichi e molto amati personaggi. La colonna sonora di Benjamin Wallfish e Hans Zimmer, priva di un vero tema ricorrente, ruba sonorità, tonalità e strumentazioni alla vecchia inarrivabile colonna sonora di Vangelis, che ha concesso l’utilizzo di un solo, mitico, tema musicale. Anche le stupende scenografie di Dennis Gassner citano e “incrementano” il geniale lavoro originale di Syd Mead, rendendo le scene di una bellezza stupefacente, mai sterile. Bellezza che è resa ancora più evidente dalla fotografia dell’ormai mitico Roger Deakins, del quale ogni bene è già stato detto (manca solo l’Oscar), che illumina di luce ammaliante scenari vecchi, come quelli del film dell’82, che sotto l’obiettivo di Jordan Cronenweth alternavano notti e pioggia a lame di luce tagliente, e nuovi, di desertica desolazione, passando attraverso varie tonalità cromatiche. Ottima prova del cast. Malinconico e impassibile Ryan Gosling, con la sua inespressa sete di amore, di famiglia. La sua amata, un ologramma che aspira alla consistenza della carne vera, è la deliziosa Ana de Armas, baluardo contro l’inevitabile solitudine stile Her. Sylvia Hoeks (la serie Berlin Station) è Luv, replicante “cattiva”, longa manu del miliardario che è affidato a Jared Leto, che si cala nel composto megalomane Wallace (penalizzato dal doppiaggio), alle prese con monologhi forse troppo prolissi, visionario salvatore dell’umanità o creatore di schiavi utili all’espansione di un’umanità che in fondo disprezza? Nessuno meglio di Robin Wright oggi può incarnare la donna virile e, apparentemente, senza sentimenti.
Harrison Ford porta tutto il suo carisma nella sua apparizione, che occupa però solo la parte conclusiva della storia, mentre un altro personaggio del rimpianto passato ricompare fuggevolmente in CG. Ricco di scene originali (la sequenza del combattimento fra gli ologrammi nel fatiscente casino di Las Vegas, la scena d’amore con la fusione fra un’umana e un ologramma, che sembra alludere alla “replica” del nuovo che si sovrappone/fonde con il vecchio film), questo Blade Runner 2049 è troppo lento e filosofeggiante per essere un “normale” film di fantascienza. Il film ha un solido nucleo thriller/noir avvolto nelle note dissertazioni, ma la ricerca di chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo non raggiunge l’intensità del pathos originale, come se il bersaglio fosse più vicino. Resta (tema ampiamente trattato in tutta la letteratura, in film e serie tv, sui replicanti, i robot, i cyborg) la presunzione dell’uomo, dell’artefice, del demiurgo, di essere il solo a possedere “l’anima”, senza dimostrare con questo di sapere cosa farsene e chi di conseguenza meriti davvero di essere definito “umano”. Se, come dicevamo allora, il film diretto da Ridley Scott era stato un nutrimento per gli occhi e per l’anima, forse questo sequel, pur fascinoso, nutrirà più gli occhi che l’anima. O forse siamo noi che ci siamo rassegnati ad essere “terminati” e ci commuoviamo di meno. Chissà.
Contro tutto questo è inutile affannarsi, ribellarsi, fuggire. Intanto ci affanniamo perché la bellezza del mondo riempia i nostri occhi, e le mille storie di libri e film saturino i nostri ricordi, e tutta la musica che fluisce costantemente intorno a noi trabocchi dalle nostre orecchie, e sentimenti, emozioni colmino la nostra anima, in un arricchimento continuo, uno strato dopo l’altro a formare quell’unicità preziosa e irripetibile che ciascuno di noi è. Quale cosmico, inaccettabile spreco se tutto questo dovrà perdersi come una lacrima nella pioggia. Con un simile carico sulle spalle, davvero da far tremare i polsi, non dubitiamo che Denis Villeneuve, con l’ausilio degli sceneggiatori Hampton Francher, che era stato fra gli autori del primo film, poi sostituito, rimasto inattivo da anni, e Michael Green, una carriera fra le serie tv, abbia assunto alla leggera la responsabilità di un sequel. Che sarà apprezzato diversamente a seconda che si sia veri cultori del primo film o semplici spettatori “ignoranti”. Ma non c’è nulla di più lontano da un pop corn movie per “ignoranti” di questo trattamento. Perché Blade Runner 2049 così come si discosta dalla drammatica metafora esistenziale che per noi era cardine del film del 1982, si concentra su un rovello più intimo, più sentimentale, e con una lettura se vogliamo più “politica” della diversità dei replicanti. Il tutto con poche ed eleganti concessioni all’action, anche se non mancano alcuni feroci combattimenti. Come buon senso impone e come cortesemente ha chiesto lo stesso regista, si deve scrivere dicendo meno possibile, per non togliere il piacere della scoperta dell’intreccio narrativo. Che è complesso, si snoda lungo più di 160 minuti, dei quali a tratti si avverte il peso, con una prima parte più faticosa e aggrovigliata, ma che si riscattano in un finale più teso e coinvolgente, che all’ultimo “replica” (anche astutamente, se vogliamo) il mitico film di Scott. Nel 2049, dopo un devastante blackout avvenuto nel 2022 che ha cancellato dati e progressi tecnologici, la Tyrell è fallita, al suo posto è subentrata la multinazionale di un altro folle tycoon misticheggiante pure lui (perché quando si replica la vita, perdere la testa è un attimo), Niander Wallace. A rastrellare i pochi esemplari rimasi dell’esperimento Nexus 8 sono stati sguinzagliati dei replicanti di nuova generazione, assolutamente non a rischio di indipendenza. Uno di loro è K, che assolve impassibile i comandi della sua Madame, capo senza scrupoli quando c’è da difendere la razza umana dai rischi connessi all’uso imprudente di certe tecnologie estreme. Ma nel corso dell’eliminazione dell’ultimo “lavoro in pelle” (Dave Bautista, degno di nota) K incappa in un dettaglio che mette in moto una catena di devastanti avvenimenti, che permetteranno di conoscere la sorte di antichi e molto amati personaggi. La colonna sonora di Benjamin Wallfish e Hans Zimmer, priva di un vero tema ricorrente, ruba sonorità, tonalità e strumentazioni alla vecchia inarrivabile colonna sonora di Vangelis, che ha concesso l’utilizzo di un solo, mitico, tema musicale. Anche le stupende scenografie di Dennis Gassner citano e “incrementano” il geniale lavoro originale di Syd Mead, rendendo le scene di una bellezza stupefacente, mai sterile. Bellezza che è resa ancora più evidente dalla fotografia dell’ormai mitico Roger Deakins, del quale ogni bene è già stato detto (manca solo l’Oscar), che illumina di luce ammaliante scenari vecchi, come quelli del film dell’82, che sotto l’obiettivo di Jordan Cronenweth alternavano notti e pioggia a lame di luce tagliente, e nuovi, di desertica desolazione, passando attraverso varie tonalità cromatiche. Ottima prova del cast. Malinconico e impassibile Ryan Gosling, con la sua inespressa sete di amore, di famiglia. La sua amata, un ologramma che aspira alla consistenza della carne vera, è la deliziosa Ana de Armas, baluardo contro l’inevitabile solitudine stile Her. Sylvia Hoeks (la serie Berlin Station) è Luv, replicante “cattiva”, longa manu del miliardario che è affidato a Jared Leto, che si cala nel composto megalomane Wallace (penalizzato dal doppiaggio), alle prese con monologhi forse troppo prolissi, visionario salvatore dell’umanità o creatore di schiavi utili all’espansione di un’umanità che in fondo disprezza? Nessuno meglio di Robin Wright oggi può incarnare la donna virile e, apparentemente, senza sentimenti.
Harrison Ford porta tutto il suo carisma nella sua apparizione, che occupa però solo la parte conclusiva della storia, mentre un altro personaggio del rimpianto passato ricompare fuggevolmente in CG. Ricco di scene originali (la sequenza del combattimento fra gli ologrammi nel fatiscente casino di Las Vegas, la scena d’amore con la fusione fra un’umana e un ologramma, che sembra alludere alla “replica” del nuovo che si sovrappone/fonde con il vecchio film), questo Blade Runner 2049 è troppo lento e filosofeggiante per essere un “normale” film di fantascienza. Il film ha un solido nucleo thriller/noir avvolto nelle note dissertazioni, ma la ricerca di chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo non raggiunge l’intensità del pathos originale, come se il bersaglio fosse più vicino. Resta (tema ampiamente trattato in tutta la letteratura, in film e serie tv, sui replicanti, i robot, i cyborg) la presunzione dell’uomo, dell’artefice, del demiurgo, di essere il solo a possedere “l’anima”, senza dimostrare con questo di sapere cosa farsene e chi di conseguenza meriti davvero di essere definito “umano”. Se, come dicevamo allora, il film diretto da Ridley Scott era stato un nutrimento per gli occhi e per l’anima, forse questo sequel, pur fascinoso, nutrirà più gli occhi che l’anima. O forse siamo noi che ci siamo rassegnati ad essere “terminati” e ci commuoviamo di meno. Chissà.
Bello, imperfetto
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