Ma come fa, uno che si chiama Nicholas Kim Coppola, a non provare anche solo per sbaglio a fare l’attore? Ma sì, dai, anche se sei poco espressivo, capita che butti lì due-tre smorfie riuscite bene e puff, diventi famoso. Hollywood è anche questo, a volte: costruzione artificiale di un personaggio, fumo agli occhi e poco più. Così nasce (ma di sicuro siamo stati troppo cattivi, pardon) Nicolas Cage. Una carriera in ascesa dopo che zio Francis (sì, avete capito bene, parliamo di mister Ford Coppola in persona) lo diresse in quello che fu il suo primo ruolo serio.
Era il 1983 e il film in questione Rusty il selvaggio. Da allora il povero Cage, va detto, non sta fermo un minuto e lavora in minimo un paio di film l’anno. Sarà per via dello stress che quest’anno, quando l’abbiamo incontrato alla 66a Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia (sarebbe bello accorciare la dicitura, ma l’acronimo MACV rende poco), si è lasciato scappare qualche criptica perla degna di nota, accostando Herzog a sua nonna e parlandoci della presunta “divinità” dei pesci.
Stendendo un velo atipico su tali misteriose dichiarazioni -che troverete nella loro amena interezza fra qualche riga-, limitiamoci a parlare della sua interpretazione nel film di Herzog, dove si cimenta nei panni del “cattivo tenente” del titolo. Ebbene, strano a dirsi, ma in quest’opera vediamo un Cage molto al di sopra delle sue ultime performance, che non ci convinceva così dai tempi di Lords of war.
In
Il cattivo tenente – ultima chiamata da New Orleans è un perfetto villain: corrotto, senza scrupoli, tossico perso, pronto a sbattersi le ragazzine che ferma per strada con la scusa di un controllo anti-droga. Tutto intercalato da battute figlie di un’ironia scanzonata davvero niente male.
Ci racconti come ha preparato questo personaggio.
Non ho scelto di avvicinarmici partendo dall’idea che ci fosse qualcosa di male o di sbagliato in lui. A chiunque mi chieda se lo ritengo più buono o cattivo non risponderò: il punto non è quello, quella di
Herzog è stata una narrazione originale, altro che remake. Si tratta piuttosto di un film esistenziale, che parla della vita: a volte si fanno cose definite “sbagliate”, ma si viene comunque premiati alla fine. L’ho preparato a partire da quest’idea di un personaggio che fa degli errori eppure riesce a farla franca, tentando di enfatizzare la sua paranoia. Ecco perché ho scelto la Magnum 44, pistola non così maneggevole per un detective. Ecco perché ho cominciato a muovermi con la schiena storta: m’interessava come segno dell’incidente, di cui non si parla molto nel film, ma sapevo avrebbe potuto aggiungere qualcosa in più al personaggio.
Herzog ha smentito l’ipotesi del remake e proposto addirittura un whisky a Ferrara, il quale ha prontamente rifiutato. Lei come la vede?
Quel film, pur essendo eccellente, è totalmente diverso da questo. Abel parlava di un senso di colpa giudaico-cattolico, qui il mio personaggio non ne possiede affatto. Anzi i suoi difetti lo aiutano a risolvere i casi, parla la lingua della strada, si droga come e con i criminali… e poi chi può giudicare chi soffre e fa ricorso ad analgesici o droghe? Nessuno: ci sono attori che bevono, per dirne una, ma sono grandi. Il talento non viene dalle bottiglie di vino. Detto questo, non è che in questo film ci sia assenza di dimensione religiosa, magari su quest’aspetto l’opera di Abel insisteva di più, ma qui si avverte comunque una spiritualità forte. Un esempio? La scena finale dei due personaggi seduti davanti all’acquario.
A proposito, ci tolga una curiosità: ma è vero che è un grande appassionato di acquari?
Li adoro! I pesci, poi, sono divini, non trova? Sono gli unici sopravvissuti al diluvio universale senza essere maledetti, credo abbiano una loro dignità!
Se le chiedessi la scena che più le è rimasta impressa del film?
Le risponderei quella più divertente: il ballo con gli attori di colore, la macchina da presa non stava ferma per quanto tutti ridevamo!
Mi parli della musica, so che per lei conta molto anche per la preparazione dei suoi personaggi…
Trovo che di tutte le arti sia l’espressione massima e nel costruire i miei ruoli cerco sempre di pensare quali suoni e ritmi accostare, per capire come trasformare in musica le battute. Per me era importante fare un film a New Orleans, la culla del jazz che ha cambiato il mondo. Io impazzisco per Miles Davis, ma più in generale per il jazz. Perché per suonarlo bene devi conoscere la musica così tanto da permetterti di poterti staccare dallo spartito e improvvisare. E anche io ho improvvisato sul set, deviando spesso dalla pagina scritta insieme alla mia collega Eva Mendes.
Com’è stato per lei girare a New Orleans?
Sono nato a Los Angeles, ma New Orleans è la città dove sono rinato, per un motivo personale che non mi va di raccontare. Mi ha risvegliato, incantandomi e terrorizzandomi al tempo stesso, tanto che avevo paura di tornarci per le riprese. Ma poi, devo dire la verità, è stata una catarsi. New Orleans è una città storica, colonizzata da più popoli, e io volevo ambientare il film lì anche per la carica spirituale molto forte che possiede. Credo sia lei la vera protagonista del film, un personaggio decisamente più forte di quello mio e di Eva.
Quant’è diverso questo ruolo dal suo in Via da Las Vegas?
In quell’interpretazione avevo approcciato al personaggio in modo più realistico, buttando giù un paio di bicchieri per entrare meglio nella parte. Stavolta, invece, visto che erano cinque anni che non bevevo, ho cercato di basare tutto su impressioni e ricordi, seguendo giusto l’immaginazione per rendere la dipendenza dalle droghe. Sempre, ovviamente, con l’entusiasmo e la speranza che tutto questo potesse alla fine dare buoni risultati. E poi fra le due città c’è una grandissima differenza: se Las Vegas ti dà la sensazione di perderti nel vuoto, New Orleans è la decomposizione assoluta.
Ci dica di Herzog, che tipo di regista è?
Un professionista: sa come muoversi, riesce a girare senza dover ripetere la stessa scena cento volte. Ottiene sempre ciò che vuole, perché lo sa con precisione fin dall’inizio. La verità? Con lui avvertivo una sola frustrazione, la stessa che provavo nel non capire mia nonna che aveva un accento incomprensibile. Quel tipo di dispiacere lì, nel non capirla più di tanto. Malgrado questo, però, abbiamo funzionato davvero benissimo insieme.
Un’ultima domanda: fra dieci anni come si vede? Ancora a recitare sui set di tutto il mondo?
Ho cominciato a fare questo mestiere a quindici anni. Sinceramente m’innervosisce molto tutto l’aspetto dello star system e dei red carpet. Tocca ammetterlo: di se stessi ci si può anche annoiare a morte. Quindi ora vorrei continuare per altri dieci, quindici anni al massimo. Poi fermarmi, mettermi seduto e dedicarmi solo alla contemplazione.
(da Il Dizionario Atipico del Giallo 2010, ed. Cooper)