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La verità è che si sa pochissimo della dittatura di Pinochet e dei suoi molteplici aspetti: un processo lungo e, ancora oggi, in gran parte oscuro”. Su quel passato tanto doloroso e oscuro,
Miguel Littín posa il suo sguardo da cineasta, gettandovi una luce preziosa grazie al suo ultimo lavoro,
Dawson, Isla 10, presentato in concorso alla quarta edizione del
Festival Internazionale del Film di Roma.
Gli occhi di Littín conoscono bene la tragedia del golpe cileno, che lo costrinse ad un esilio in Messico durato dodici anni ed interrotto nel 1985, quando fece ritorno in patria come clandestino per dedicarsi ad un progetto cinematografico di denuncia nei confronti della dittatura militare:
Acta general de Chile. Una storia affascinante, cui lo scrittore
Gabriel García Márquez arriverà a dedicare un suo libro:
Le avventure di Miguel Littín, clandestino in Cile.
Anche la vita di Sergio Bitar è legata a doppio filo con quel periodo storico. Ex Ministro delle Miniere del governo presieduto da Salvador Allende, fu arrestato e deportato, insieme con altri membri di quel governo, in un campo di concentramento allestito nell’isola di Dawson. Sostenitore dell'attuale governo di Michelle Bachelet, ha deciso di raccontare la sua storia nel libro Isla 10, principale fonte d’ispirazione per la pellicola di Littín.
Il loro impegno civile ed intellettuale durante e dopo la dittatura, così come le loro convinzioni circa il passato del Sud America e le prospettive per il suo futuro, emerge con forza nell’intervista che ci hanno rilasciato.
Com’è stato accolto il film in Cile? Ha suscitato dibattiti o ha aperto qualche ferita ancora sanguinante?
Miguel Littín: L’accoglienza è stata eccezionale. Le sale erano sempre piene di persone che hanno visto il film con un sentimento che definirei «aperto». Ho visto alcune persone uscire dalle sale cinematografiche sorridendo, altre piangendo, altre ancora applaudendo. Quella gente aveva fatto proprio il film e questo è avvenuto non soltanto in Cile. In Brasile la reazione è stata la stessa, con un’identificazione popolare del pubblico con la storia mostrata e questo ritengo che sia l’obiettivo più ambito per un cineasta.
Sergio Bitar: Per questo film esistono, secondo me, differenti tipologie di pubblico.
Una di queste categorie è costituita da coloro che combatterono contro la dittatura e queste persone sono contente, soddisfatte dopo la visione. La seconda è composta dai giovani e si tratta di un gruppo molto importante. La pellicola di Littín, infatti, ha la grandissima importanza di dar risalto allo sforzo compiuto dall’essere umano per cambiare il proprio futuro, per costruire una società diversa ed è fondamentale che quest’emozione arrivi a quei giovani che, magari, non sanno nemmeno cosa è accaduto in Cile nel 1973. La terza tipologia, infine, comprende il pubblico degli altri paesi dell’America Latina i quali, in qualche modo, sentono che questa storia appartiene anche a loro, si riconoscono nella lotta di questi uomini per sopravvivere, per dar vita a un mondo diverso.
Esiste, a vostro giudizio, la possibilità che un passato simile faccia ritorno?
M.L.: Certo. Un candidato di destra potrebbe benissimo riuscire a vincere le elezioni in Cile, regolarmente votato dal popolo che nel film, infatti, è rappresentato dal personaggio di un contadino dell’isola il cui atteggiamento è piuttosto ambiguo e mutevole nei confronti di quella situazione.
Il mio film vuole essere una sorta di scommessa, riproponendo alcuni valori di quella particolare realtà. Essa non è poi così distante. Basta pensare agli Stati Uniti e a Guantanamo, alle torture che vengono inflitte, ancora oggi, a certi prigionieri, oppure alla situazione dell’Honduras e di quelle democrazie ancora precarie, o ancora alle continue aggressioni dei popoli potenti su quelli più deboli e al Terzo Mondo.
Sono contesti che esistono e che ci fanno capire che quel che è successo in passato non è così lontano dal nostro presente.
L’immagine che, però, negli ultimi anni si percepisce circa i paesi del Sud America, compreso il Cile di Michelle Bachelet, è caratterizzata da un forte progressismo e dal cambiamento…
S.B.: Sicuramente l’America Latina sta vivendo un periodo di progresso in senso democratico. Attualmente, però, stiamo attraversando la fase, molto difficile, di creazione e stabilizzazione delle istituzioni democratiche. Senza dubbio, dagli anni ’70 c’è stato un progresso economico e si è sviluppata una maggiore attenzione nei confronti delle politiche sociali e contro la povertà, ma si tratta di fenomeni ancora in corso e, di conseguenza, precari.
In Sud America esiste ancora il rischio del trionfo della destra ed esistono dei governi che sembrano progressisti ma che, in realtà, sono populisti.
Tornando al film, Littín esprime un’idea molto chiara di quello che fu il destino di Salvador Allende, mostrandone l’omicidio. Tuttavia, stando alla versione presentata come ufficiale, Allende si sarebbe suicidato. Perché questa presa di posizione?
M.L.: Semplicemente perchè io sono abituato a dire quello che penso e non accetto assolutamente la tesi del suicidio: secondo me, Allende è stato ucciso! Non ci sono prove per avvalorare la tesi del suicidio. La accetterei solo se queste prove saltassero fuori. Esistono, invece, varie interpretazioni ed ipotesi ma nulla di certo.
Il compito di noi artisti, cineasti, scrittori, poeti, è proprio quello di offrire elementi di riflessione, anche provocatori, al fine di stimolare la ricerca della verità.
S.B.: La storia su Allende è stata scritta, si scrive tuttora e si scriverà in futuro. La mia opinione personale è che non faccia alcuna differenza sapere se Allende sia morto suicida o sia stato assassinato: in ogni caso, lui è stato spinto verso la morte da un golpe militare. Anche se si trattasse di suicidio, Allende avrebbe deciso di sacrificare la propria vita per difendere le istituzioni, la democrazia e la volontà popolare e questo, a mio parere, deve essere considerato un atto eroico.
Proprio in virtù dei tanti punti oscuri che circondano quella vicenda, ha avvertito, come regista, una sorta di urgenza, anche sociale o politica, nel raccontare questa storia?
M.L.: Io faccio film quando trovo una storia che mi coinvolge e mi appassiona e non per influenze di tipo burocratico o politico. Io sono un cineasta e vivo in prima persona la storia che desidero raccontare. Un elemento che ha dato un contributo fondamentale per la mia decisione di girare il film è stato il paesaggio che caratterizza l’isola e che ti porta a rivivere tutto ciò che è successo in quel luogo anni fa. I colori, i laghi ghiacciati, l’atmosfera grigia sono tutti elementi che mi hanno spinto a fare il film.
Pablo Neruda diceva: “Canto perché canto perché canto”. Io “filmo perché filmo perché filmo”.