Iran, 1953. Una donna se ne sta da sola con il suo ultimo gesto estremo. Si getta nel vuoto, ribellandosi così nel solo modo che sembra esserle concesso. Da lì la regista Shirin Neshat parte per raccontarci la vita di alcune donne nell'Iran di mezzo secolo fa, una rappresentazione che tuttavia profuma anche tanto di contemporaneità.
Lo fa attraverso questo Women without men, un affresco nel vero senso della parola. La regista viene infatti dalla fotografia ed è evidente la pignola ricercatezza visiva in ogni inquadratura, volta ad ottenere sempre un preciso effetto cromatico e una particolare plasticità nell'immagine. Per questo la narrazione segue un ritmo molto lento, lasciando spazio ad una serie di suggestioni visive e sonore per lo spettatore.
Dunque è nella sua estetica che il film trova il punto maggiore di forza. Purtroppo, però, è in questo stesso aspetto che risiede anche la sua più grande. L'opera è infatti un manieristico e barocco susseguirsi di immagini tra loro molto poco omogenee, dove la storia politica del paese (il colpo di stato delle forze politiche anglo-americane contro il primo presidente eletto dal popolo) è affidata soltanto a scene di proteste di massa. Con una simil scarsa contestualizzazione viene da sé che diventa difficile riuscire ad inquadrare le esperienze delle controverse protagoniste, le qual percorrono differenti percorsi rivendicando il diritto alla liberazione sessuale, alla scoperta del proprio corpo, alla cultura, alla partecipazione politica.
Women without men racconta così solo superficialmente aspetti che altre opere hanno più criticamente affrontato, perdendosi nel vago onirismo della regia, che appesantisce la fruizione del film e non riesce a esprimere la disillusione e il disincanto nei confronti di utopie ancora lontane dall'essere realizzate. L'unica impresa riuscita è invece quella di renderci indifferenti persino al suicidio.
Donne, du-du-du. C'è poco da cantare e stare allegri. Il film è un freddo manifesto della condizione femminile in Medio-Oriente.
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